I miti del “cattivo tedesco” e del “bravo italiano”: riflessioni conclusive

Con le conclusioni, arriviamo all’ultima puntata (sospiro di sollievo!) della serie di post dedicata al saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi. Ricordiamo che la puntata precedente era relativa alla responsabilità collettiva del popolo tedesco e alle voci della cultura antinazista in Italia.

Nelle conclusioni del volume, riflettendo sul “mito identitario, autogratificante e autoassolutorio” del «bravo italiano», Focardi ne rintraccia le origini in “una pluralità di matrici allora convergenti: le diverse culture politiche dell’antifascismo unite nell’esaltazione della lotta del popolo italiano contro l’«oppressore tedesco e il traditore fascista»; la galassia della destra anti-antifascista impegnata a tracciare la più netta distinzione possibile fra Hitler e il «buonuomo Mussolini», fra i barbari tedeschi e gli alpini abbandonati sul Don; e poi gli apparati dello Stato, coinvolti in pieno nella tragica avventura mussoliniana a fianco del Terzo Reich – in primis, ministero degli Esteri e ministero della Guerra -, solerti nello scaricare sulle spalle dell’ex alleato germanico (oltre che sul duce) il peso quasi esclusivo della responsabilità per la condotta bellica dell’Asse, con i suoi insuccessi e le sue pratiche criminali. Tutti accomunati – antifascisti di governo, anti-antifascisti di opposizione, apparati scarsamente epurati – dall’esigenza di separare le sorti dell’Italia sconfitta ma cobelligerante da quelle della Germania nazista rimasta fino alla fine a fianco del Führer e destinata a un severo castigo da parte dei vincitori”.

Nella «fase genetica» dell’immediato dopoguerra vi furono però anche altri fattori che contribuirono all’affermazione dell’immagine del «bravo italiano» contrapposta a quella del «cattivo tedesco». Le caratteristiche del «bravo italiano» – indole pacifica, empatia umana con gli oppressi, disponibilità a soccorrerli e ad aiutarli – rispecchiavano le virtù cristiane del «buon samaritano», ricollegandosi dunque a un alveo della cultura cattolica di cui il paese era ancora fortemente permeato (nonostante gli sforzi profusi nel ventennio dalle zelanti gerarchie ecclesiastiche a sostegno delle mire belliche del regime, dall’Etiopia alla Spagna dai Balcani all’Unione Sovietica). Attingendo a una delle fonti migliori dell’etica popolare di matrice cristiana, gli italiani potevano pertanto rispecchiarsi in un’immagine positiva di se stessi, che era allo stesso tempo – non casualmente – la completa negazione del profilo dell’«uomo nuovo» agognato dal fascismo e da Mussolini, forgiato sulle virtù marziali del «credere, obbedire, combattere» fondamentali per il dominio imperiale, profilo cui aveva semmai corrisposto il truce soldato tedesco. In definitiva, gli italiani erano stati sì sconfitti, ma nella guerra si erano moralmente redenti attraverso il ripudio della pedagogia fascista, ritrovando le proprie radici cristiane e distinguendosi dall’alleato germanico intriso di neopaganesimo nazista”.

La contrapposizione fra «bravo italiano» e «cattivo tedesco»”, prosegue Focardi, ha “finito per trovare un avallo anche da parte della stessa cultura neofascista. Essa […] aveva cercato di legittimare la scelta mussoliniana di dar vita alla Repubblica sociale e di continuare la lotta a fianco della Germania nazista con la motivazione che si fosse trattato di un’azione a fini patriottici per impedire che l’Italia facesse la fine della Polonia e fosse messa a ferro e fuoco dai «furenti» alleati, esacerbati dal tradimento del re e di Badoglio. Dunque, che i tedeschi fossero stati davvero feroci era stato apertamente ammesso dalla stampa neofascista”, i cui fogli criticarono “il processo di Norimberga contro i vertici del nazismo ritenendolo espressione della «giustizia dei vincitori», ma non negarono la gravità dei crimini tedeschi. Al contrario furono risoluti nel difendere la condotta dei militari italiani nei paesi occupati, respingendo le accuse loro rivolte di aver commesso crimini di guerra e dipingendoli nei panni di combattenti leali e di occupanti corretti nonché dotati di alto spirito umanitario.”

Le esigenze di salvaguardia degli interessi nazionali al tavolo della pace fra 1945 e 1947 indussero […] a rivendicare anche i meriti «umanitari» degli italiani […] nei territori coloniali. L’elogio del presunto colonialismo ‘dal volto umano’ servì alla classe dirigente, compresa gran parte della sinistra antifascista, per rivendicare il mantenimento della sovranità sulle colonie prefasciste (Libia, Eritrea e Somalia), «civilizzate» dall’alacre contributo del lavoro italiano. All’immagine del «bravo italiano» scaturita dalla guerra e intrecciata all’immagine specchio del «cattivo tedesco» si univa pertanto – con un effetto di rafforzamento – quella degli «italiani brava gente» che si erano prodigati per mettere a frutto i territori d’oltremare costruendo strade, scuole, ospedali e impiantando attività economiche (come se le altre potenze coloniali non avessero fatto lo stesso, ovviamente curando tutti principalmente il proprio tornaconto)”, aggiunge Focardi.

Un importante vettore di continuità e di diffusione è stato rappresentato dalla memoria della guerra e della Resistenza coltivata in ambito antifascista, compresa l’area della sinistra”, prosegue Focardi, “portata a considerare i soldati italiani – specie la truppa – come semplici vittime dell’invisa guerra di Mussolini e a esaltarne il riscatto dopo l’8 settembre attraverso la scelta di non collaborazione degli IMI e soprattutto l’impegno di tutti coloro che in Italia e all’estero imbracciarono le armi contro il nazifascismo. […] Possiamo dunque considerare la raffigurazione intrecciata del «bravo italiano» e del «cattivo tedesco» come un ‘minimo comune denominatore’, una sorta di collante […] fra le memorie frammentate e talvolta contrapposte della Resistenza coltivate dalle diverse forze e dalle diverse culture politiche antifasciste. Non a caso, tale raffigurazione è tornata in auge negli anni sessanta con il rilancio della memoria della Resistenza quale «religione civile» nazionale nel periodo del centrosinistra. […] Una spinta assai potente alla perpetuazione dell’immagine correlata del «bravo italiano» e del «cattivo tedesco» è nondimeno provenuta dalla variegata area politico-culturale che è ormai invalso definire anti-antifascista. La «memoria indulgente» del fascismo coltivata dai rotocalchi degli anni cinquanta e sessanta cara a tanta piccola e media borghesia […] si è fondata su una raffigurazione benevola del fascismo, valutato costantemente «in negativo» rispetto al bieco e fanatico totalitarismo nazista. La «defascistizzazione retroattiva» della dittatura fascista, di cui ha parlato Emilio Gentile, ha poggiato in gran parte proprio su questo processo di «esternalizzazione» del lato violento e criminale del regime, attribuito «in esclusiva» all’alleato tedesco. […] L’insistita contrapposizione tra fascismo e nazismo – anche questa fondata senza dubbio su concreti elementi di distinzione – ha rappresentato dunque un altro canale di rafforzamento della contrapposizione fra «bravi italiani» e «cattivi tedeschi». […] Occorre osservare come non siano state comunque solo ragioni interne ad assicurare longevità al mito del «bravo italiano». L’atteggiamento esterno, degli altri paesi nei confronti dell’Italia, ha avuto a sua volta una notevole influenza confermando e assecondando la benevola autoraffigurazione nazionale. La chiave di lettura imperniata sulla coppia di stereotipi del «cattivo tedesco» e del «bravo italiano» è stata infatti applicata costantemente anche dagli altri, sia che si faccia riferimento a […] un’opinione pubblica pubblica internazionale, molto influenzata dalle raffigurazioni del cinema americano, sia che si prendano in considerazione le memorie pubbliche della guerra sviluppate dagli stessi paesi vittime dell’occupazione italiana, come la Jugoslavia, la Grecia o l’Unione Sovietica. […] Il ricordo delle ferite lasciate dall’occupazione italiana è stato inoltre oscurato dal grande trauma della successiva guerra civile tra le forze nazionaliste e i partigiani comunisti, nonché volutamente rimosso dai governi conservatori ellenici per le esigenze di riconciliazione con l’Italia in ambito atlantico, restando vivo semmai solo in quelle località della Grecia continentale investite in pieno fra il 1942 e il 1943 dall’ondata repressiva italiana. In Unione Sovietica, infine, è stata coltivata a lungo una memoria della guerra che stigmatizzava la condotta germanica e metteva invece in risalto la bonarietà dei soldati italiani in nome della fratellanza proletaria con i contadini e gli operai russi, con un occhio di riguardo ai preziosi rapporti con il forte Partito comunista italiano”.

Certamente non bisogna dimenticare che alla base della lunga persistenza in Italia e all’esterno di stereotipi e miti sui tedeschi e sugli italiani sia il fatto che essi abbiano corrisposto effettivamente a comportamenti e gradi di responsabilità molto differenti dei due ex alleati. Esiste cioè alla loro base un forte nucleo di verità”, afferma Focardi, che più oltre prosegue, “E tuttavia gli stereotipi del «bravo italiano» e del «cattivo tedesco» sono serviti egregiamente a mascherare e rimuovere aspetti altrettanto reali della guerra fascista e prima ancora della politica coloniale e antisemita del regime: il carattere aggressivo di quella guerra e le responsabilità del regime nel suo scatenamento; il fatto che molti italiani l’abbiano combattuta – almeno per un pezzo – con convinzione ideologica; i gravi crimini commessi nei Balcani o in Russia che si aggiungevano a quelli già perpetrati su larga scala in Libia e in Etiopia; la persecuzione antisemita del 1938 non imposta da Berlino e la collaborazione poi prestata dalla RSI allo sterminio degli ebrei, braccati e consegnati nelle mani dei carnefici hitleriani. Gran parte del carico delle colpe italiane ha finito così per essere messo sulle spalle (già molto provate) dei tedeschi per poi essere rapidamente rimosso. Come ha osservato Vittorio Foa […] non si è trattato di «una rimozione in senso psicanalitico», quanto piuttosto di «una comoda ma delittuosa cancellazione della storia», poiché quando «dopo avere ucciso, non si riconosce la vittima, si è ucciso due volte». […] Gli storici hanno ormai sgretolato buona parte dei tasselli che formavano il mito del «bravo italiano». Ma i risultati della ricerca hanno prodotto solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie. […] una consapevolezza diffusa nel paese tuttora manca. Nessuna delle numerose fiction televisive di argomento storico si è azzardata a toccare il delicato argomento. Ma anche gli stessi manuali di storia per le scuole e le università – salvo eccezioni – ancora non trattano o non trattano a sufficienza il tema delle responsabilità italiane nei crimini coloniali o nella guerra di aggressione dell’Asse. Soprattutto, questa dimensione moralmente ingombrante del nostro passato non ha trovato fino adesso alcuno spazio nella ridefinizione delle coordinate della memoria pubblica nazionale.”

4 pensieri su “I miti del “cattivo tedesco” e del “bravo italiano”: riflessioni conclusive

  1. Proprio oggi stavo guardando un documentario su rai storia molto interessante che parlava dei criminali di guerra italiani e tedeschi e l’italia non ha estradato nessun criminale di guerra (se mai sono stati gli stati che li volevano a prenderseli usando dei trucchetti)e molti di questi non sono neanche stati processati e i pochi che lo sono stati molto sono stati assolti, molti che sono stati processati o hanno avuto forti sconti di pena(tipo un criminale condannato a 19 anni gli e ne sono stati condonati 17) e altri sono scappati in altri paesi dove non estradavano tipo Spagna , oltretutto solo del 1994 se non sbaglio hanno scoperto quello che viene chiamato l’armadio della vergogna un armadio nascosto per 50 in un ufficio(diciamo che era messo di spalle e quindi non si vedeva ed era difficile da aprire) e conteneva dati di crimini di guerra nazi-fascisti per almeno 15.000 persone uccise.

    • Alessio, scusa se non ho avuto tempo per moderare i tuoi commenti prima. Purtroppo quello che descrivi è vero: l’Italia si rifiutò di portare alla loro conclusione le indagini sulle responsabilità dei capi dell’esercito, preferendo insabbiarle in nome della riconciliazione nazionale. Una pagina molto triste della nostra storia.

      • Mi chiedo anche come il nostro paese 70 anni fa possa aver fatto quello che ha fatto e non mi riferisco tanto alla guerra, ma allo sterminio delle persone considerate inferiori , e non parliamo di persone che erano nemici o una minaccia per il regime fascista(in un regime l’eliminazione dei nemici e degli oppositori è una triste realtà) e non erano spesso neanche stranieri ma italiani ,posso fra virgolette capire chi sosteneva un regime autoritario e combatteva i suoi “nemici” ma sterminare delle persone non per le loro idee o perché sono una minaccia ma per la loro etnia o per la loro religione mi sembra una totale follia.

      • Sappiamo che c’erano vari fattori di antisemitismo presenti nella storia d’Europa, sin dal Medioevo, quando gli ebrei furono costretti a vivere nei ghetti, accusati di fare il pane con il sangue dei bambini cristiani e di ucciderli durante i loro rituali. La paura antica del diverso, sommata al razzismo “scientifico” dell’antropologia dell’epoca, con la sua suddivisione gerarchica in razze, sommata alla dottrina cattolica degli ebrei come deicidi, colpevoli (tutto il popolo dell’epoca, e quindi tutto il popolo ebraico per sempre) dell’uccisione di Cristo. In più, il fatto che Mussolini voleva rendere gli italiani un popolo guerriero suscitando in essi l’orgoglio razziale, e la logica che spinse anche le persone normali a diventare complici dello sterminio, per salvarsi, o per opportunismo. La banalità del male, non c’è altro da dire.

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