Il dominio maschile, di Pierre Bourdieu (parte 19)

Come accennavo al termine della diciottesima puntata, in questo nuovo post in cui ripercorriamo il libro di Pierre Bourdieu Il dominio maschile, tratteremo, attraverso l’analisi dell’economia dei beni simbolici e delle strategie di riproduzione, del ruolo delle donne nelle istituzioni del matrimonio e della famiglia nella società in cui l’autore scrive, la Francia del 1998. Non così lontana dai giorni nostri, e molto di quello che Bourdieu dice infatti resta valido, ma sarebbe falso dire che nulla è cambiato da allora.

L’autore apre il paragrafo affermando: “un altro fattore determinante del perpetuarsi delle differenze è la permanenza che l’economia dei beni simbolici […] deve alla sua autonomia relativa, permanenza che permette al dominio maschile di persistere al di là delle trasformazioni dei modi di produzione economica, e questo con il sostegno costante ed esplicito che la famiglia, principale custode del capitale simbolico, riceve dalla chiesa e dal diritto. L’esercizio legittimo della sessualità, per quanto possa sembrare ormai svincolato dall’obbligo matrimoniale, resta ordinato e subordinato alla trasmissione dei beni, attraverso il matrimonio che rimane una delle vie legittime del trasferimento della ricchezza. […] le famiglie borghesi non hanno mai smesso di investire nelle strategie di riproduzione, e in quelle matrimoniali in particolare, per conservare o aumentare il loro capitale simbolico. […] il mantenimento della loro posizione è strettamente legato alla riproduzione del capitale simbolico attraverso la produzione di eredi capaci di perpetuare l’eredità del gruppo e l’acquisizione di parentele prestigiose”. In questo scenario, “le donne sono rimaste a lungo confinate nell’universo domestico e nelle attività associate alla riproduzione biologica e sociale della stirpe – attività, quelle materne in particolare, che, pur essendo apparentemente valorizzate e a volte celebrate ritualmente, lo sono solo nella misura in cui restano subordinate alle attività di produzione, le uniche suscettibili di una vera sanzione economica e sociale, e ordinate in rapporto agli interessi materiali e simbolici della stirpe […]. Per questo una parte assai importante del lavoro domestico della donna è dedicata ancora oggi […] a mantenere la solidarietà e l’integrazione della famiglia, curando i rapporti di parentela e il capitale sociale attraverso l’organizzazione di tutta una serie di attività sociali […] destinate a celebrare ritualmente i legami di parentela e ad assicurare il mantenimento dei rapporti sociali e il prestigio della famiglia”.

Le donne, soprattutto nelle culture mediterranee che danno grande importanza alla parentela, sono le custodi delle tradizioni di famiglia e incaricate di tessere i legami tra i nuclei, organizzando ad esempio i pranzi e le cene nelle festività che sono un’occasione di riunirsi, e tutto questo fa parte del lavoro emotivo di cura. Vedere il mantenimento delle relazioni e della solidarietà intergenerazionale come un lavoro può apparire arido, ma in effetti è solo perché c’è l’aspettativa, inespressa e spesso inconscia, che queste attività che definiscono il senso di essere una famiglia siano fatte per amore, per disinteresse, per il piacere dello stare con i propri cari, senza dimenticare che comunque il mantenimento delle relazioni può essere faticoso e gravoso, una fatica che rimane invisibile perché ci si aspetta che sia piacevole. Bourdieu, a questo proposito, scrive: “Questo lavoro domestico per lo più passa inosservato, o viene frainteso […] e, quando si impone allo sguardo, viene derealizzato attraverso lo spostamento sul terreno della spiritualità, della morale e del sentimento, […] favorito dal suo carattere non immediatamente monetizzabile e ‘disinteressato’. Il fatto che il lavoro domestico della donna non abbia un equivalente monetario contribuisce a svalutarlo agli occhi della donna stessa, come se questo tempo […] potesse essere dato senza contropartita, e senza limiti, innanzitutto ai membri della famiglia, soprattutto ai figli […], ma anche all’esterno, in attività benefiche, in chiesa, in iniziative di volontariato o, sempre di più, in associazioni o partiti”.

Bourdieu prosegue: “Se, nelle società meno differenziate, erano trattate come mezzi di scambio che dovevano permettere agli uomini di accumulare capitale sociale e capitale simbolico attraverso il matrimonio, […] oggi le donne danno un contributo decisivo alla produzione e alla riproduzione del capitale simbolico della famiglia, innanzitutto manifestando, con tutto ciò che concorre alla loro apparenza, […] il capitale simbolico del gruppo domestico […]. Il mondo sociale funziona […] come un mercato dei beni simbolici dominato dalla visione maschile: […] esse [essere, in latino, ndr], quando si tratta delle donne, significa […] essere percepite […] da un occhio abitato dalle categorie maschili, quelle cui si ricorre, senza essere in grado di enunciarle esplicitamente, quando si loda l’opera di una donna definendola ‘femminile’ […]: essere ‘femminile’ significa essenzialmente evitare tutte le proprietà e le pratiche che possono funzionare come segni di virilità, al punto che dire di una donna di potere che è ‘molto femminile’ rappresenta un modo particolarmente sottile di negarle il diritto a quell’attributo propriamente maschile che è il potere”.

Più oltre nel paragrafo, l’autore scrive: “se ogni rapporto sociale è […] il luogo di uno scambio in cui ciascuno offre alla valutazione il suo apparire sensibile, il peso che, in questo essere-percepiti, ricade sul corpo ridotto a quello che a volte viene detto il ‘fisico’ […], rispetto a proprietà […] come il linguaggio, è maggiore per la donna che per l’uomo. Mentre, nell’uomo, tendono a cancellare il corpo a vantaggio dei segni sociali della posizione sociale […], nelle donne la cosmesi e l’abbigliamento mirano a esaltarlo e a farne un linguaggio di seduzione. […] Essendo socialmente portate a trattare se stesse come oggetti estetici […] le donne si vedono […] affidare, nella divisione del lavoro domestico, la responsabilità di tutto ciò che ha a che fare con l’estetica e […] con la gestione dell’immagine pubblica e delle apparenze sociali dei membri dell’unità domestica […]. Sono le done che si assumono il compito e la cura dell’ambiente in cui si svolge la vita quotidiana […]”. Questo è un altro esempio di come la divisione dei ruoli in base al sesso deriva dall’attribuzione di caratteristiche e dalla coltivazione di queste caratteristiche in un genere e non nell’altro, cioè appunto dai processi di costruzione sociale del genere, di socializzazione di genere. A questo proposito, Bourdieu prosegue: “Preposte alla gestione del capitale simbolico delle famiglie, le donne sono logicamente invitate ad assumere questo ruolo anche all’interno dell’impresa, che chiede loro quasi sempre di farsi carico delle attività di presentazione e di rappresentanza, di ricevimento e accoglienza […] nonché della gestione dei grandi riti burocratici che […] contribuiscono al mantenimento e alla crescita del capitale sociale di relazioni e del capitale simbolico dell’impresa. […] queste attività di esibizione simbolica, che per le imprese corrispondono a ciò che le strategie di presentazione di sé sono per gli individui, richiedono […] un’attenzione estrema all’apparenza fisica e alle disposizioni alla seduzione che sono conformi al ruolo più tradizionalmente assegnato alla donna. E si capisce che, a livello generale, si possano affidare alle donne, per una semplice estensione del loro ruolo tradizionale, funzioni […] nella produzione o nel consumo dei beni e dei servizi simbolici o, più precisamente, dei segni di distinzione, dai prodotti e o dai servizi cosmetici […] sino alla grande sartoria o all’alta cultura. Responsabili all’interno dell’unità domestica della conversione del capitale economico in capitale simbolico, le donne sono predisposte a entrare nella dialettica permanente dell’ostensione e della distinzione cui la moda offre uno dei terreni d’elezione e che rappresenta il motore della vita culturale intesa come movimento perpetuo di superamento e di rincaro simbolici.”

Ora, qui Bourdieu sta facendo riferimento alla propria teoria della distinzione, secondo cui i rapporti di potere fra le classi sociali non sono solo il prodotto di una differenza di ricchezza (cioè di capitale economico), ma anche di strategie di distinzione volte a mantenere il prestigio della propria posizione sociale da parte di coloro che detengono il capitale culturale e simbolico, cioè le classi superiori, che usano determinati oggetti culturali come barriere. Questo in inglese si chiama gatekeeping, mantenimento dei confini, e lo fanno ad esempio le subculture, le culture giovanili, i fandom, ma fa parte anche delle strategie con cui le classi superiori giustificano la loro superiorità in termini di gusti, stili di vita e quindi di consumi che vengono distinti in “intellettuali” e “di massa”. Sono le élite culturali, in ciascuno dei settori in cui si articolano le idee di classe, eleganza, buon gusto, a tracciare il confine appunto fra cosa è elegante, cosa è colto, cosa è di moda e cosa non lo è, e lo fanno per mantenere in piedi quei confini da cui dipende il loro prestigio di élite. La posta in gioco è il potere di definire lo spazio sociale. Bourdieu riconosce che le donne giocano un ruolo importante in questi processi, sia come membri delle industrie culturali sia come consumatrici, perché appunto responsabili della gestione del capitale simbolico delle famiglie, laddove gli uomini nel ruolo tradizionale di breadwinner sono responsabili del capitale economico. Bourdieu nota: “Le donne della piccola borghesia […] sono le vittime privilegiate del dominio simbolico, ma anche gli strumenti più indicati a propagarne gli effetti, facendoli ricadere sulle categorie dominate. Nell’essere quasi travolte dall’aspirazione a identificarsi con i modelli dominanti […] sono particolarmente portate ad appropriarsi a ogni costo […] delle proprietà distinte perché distintive dei dominanti, contribuendo alla loro diffusione imperativa […]. È come se il mercato dei beni simbolici, cui le donne devono le migliori attestazioni della loro emancipazione professionale, concedesse a queste ‘libere lavoratrici’ della produzione simbolica le apparenze della libertà, solo per meglio ottenere la loro fervida sottomissione e il loro contributo al dominio simbolico che si esercita attraverso i meccanismi dell’economia dei beni simbolici di cui esse sono anche le vittime privilegiate”.

Questo fenomeno è osservabile pensando a quanto le donne che lavorano per le riviste femminili siano riproduttrici di stereotipi di genere e di una visione della femminilità centrata sulla moda, sul glamour, sulla cura di sé e su altri interessi (stereotipicamente) legati al femminile, come la cucina, l’amore per i fiori, il gossip sulle celebrità, i matrimoni, l’arte di ricevere, quella di decorare la casa. Basta guardare i programmi trasmessi da Real Time per farsi un’idea di cosa intendo: si tratta di trasmissioni prodotte generalmente da donne per spettatrici donne, che “trafficano in femminilità” con l’aiuto di esperte ed esperti che si pongono come guardiani dell’eleganza. L’altro giorno ho beccato una puntata di Cortesie per gli Ospiti in cui Csaba della Zorza lodava i tovaglioli ricamati e l’arte delle ricamatrici, senza le quali saremmo tutti “condannati ai tovagliolini di carta”. Un ottimo esempio di gatekeeping di classe (quante persone possono permettersi i tovaglioli ricamati a mano?) ma anche di genere (non sei una donna elegante se usi i tovagliolini di carta!). Per chi si pone in una prospettiva di liberazione dalle gerarchie e dalle imposizioni, è importante vedere questi fenomeni per quello che sono, meccanismi di produzione di aspettative di genere e di classe, per poterli rifiutare con consapevolezza e spirito critico. E Bourdieu non può notare il paradosso di un’emancipazione delle donne che lavorano in queste industrie ottenuta proponendo ad altre donne un modello di femminilità che è l’esatto contrario dell’emancipazione.

Medioevo Maschio, di Georges Duby (parte 20)

Ci stiamo avvicinando alla conclusione di questa raccolta di saggi, che per me è stata un viaggio interessante in un argomento che altrimenti non avrei mai esplorato, in particolare quando Duby si è allontanato dalla storia delle donne per addentrarsi nella storia dei valori e della cultura del Medioevo. Come ho detto all’inizio, io non ho avuto modo di studiare questo periodo storico al liceo per una questione di tempi che ha obbligato a saltare parte del programma, e ora in retrospettiva posso dire che ho una comprensione chiara della mentalità del periodo. Non saprò quasi nulla dei fatti che hanno definito quest’epoca storica, ma sono più vicina a sapere come pensavano gli uomini e le donne di allora. A questo tema è dedicato anche il capitolo 14 del libro, Memorie senza Storico, una riflessione sul senso del fare storia e al contempo sul “funzionamento della memoria fra gli uomini che vissero nei secoli XI e XII”.

Duby esordisce notando che la professione dello storico “consiste essenzialmente nel giustapporre dei frammenti, delle schegge di ricordi, spesso appena identificabili, e nel dar loro un rivestimento immaginario per tentare di metterli insieme, di ricostituire un’immagine, ma secondo schemi che, comunque, si traggono da se stessi”. Nota poi che il progetto che ha intrapreso si fonda su una riflessione più profonda all’interno della comunità degli storici: “Uno degli effetti dell’affrancamento delle colonie fu di costringere gli storici europei a prendere in maggior considerazione delle società senza cultura scritta – com’erano press’a poco le società medievali – , di far sì che scoprissero la funzione della comunicazione orale nella trasmissione dei ricordi collettivi, nella costruzione di una storia” solida, viva e “necessaria all’organizzazione dei rapporti sociali”. Tuttavia la nostra incertezza a proposito dei meccanismi della memoria nella cultura del nostro Medioevo dipende soprattutto dal fatto che i fenomeni si sottraggono all’osservazione. Questa passa necessariamente attraverso tracce scritte […] e noi riusciamo solo a cogliere la memoria immobilizzata dal lavoro dei tecnici il cui compito era precisamente di […] imprigionarla in una rete di parole”.

Nelle società dette feudali, l’accesso alla scrittura era monopolio di pochi uomini, tutti appartenenti alla Chiesa; la loro stessa funzione – poiché il cristianesimo è una religione del libro, poiché il suo clero ha l’obbligo di mantenere il contatto con una Scrittura – implicava che […] possedessero le lettere, e l’uso d’una lingua, il latino, diversa della lingua parlata, in cui dovevano essere tradotte, prima di essere trascritte, tutte le parole impiegate nella vita di ogni giorno”. Tutti gli altri uomini […] facevano a meno benissimo dello scritto. Le relazioni tra di loro si fondavano sulla memoria. Ma per consolidarla usavano altri mezzi. In primo luogo la cerimonia. Ogni atto sociale di qualche rilievo doveva essere pubblico, doveva compiersi davanti a un’assemblea numerosa i cui membri serbavano […] il ricordo; da loro si aspettava che eventualmente, più tardi, testimoniassero di ciò che avevano visto e sentito. Parole, gesti rivestiti di un rituale perché meglio s’imprimessero nella memoria di un gruppo per essere riferiti in avvenire. Invecchiando i testimoni si sentivano in dovere di trasmettere ai loro discendenti ciò che serbavano nella memoria, e quest’eredità di ricordi passava così da una generazione all’altra”.
Ovviamente questo poneva il problema di come fare in modo che i ricordi si mantenessero il più possibili fedeli a ciò che era accaduto. Un metodo consisteva nell’“includere tra gli astanti dei bambini piccolissimi, e a volte di schiaffeggiarli con violenza nel momento culminante della cerimonia, nella speranza che, per l’associazione tra il ricordo dello spettacolo e il ricordo del dolore, essi dimenticassero meno alla svelta ciò che era accaduto sotto i loro occhi. Oppure si conservava con cura un oggetto che nei riti d’investitura una mano aveva messo in un’altra mano, sotto gli occhi del popolo, per significare la trasmissione di un diritto – come quei ramoscelli, quei coltelli, quelle pietre che ancora si trovano talvolta legati a una pergamena o a una carta che uno scriba, comunque, era stato incaricato di redigere, ma che non sembrava offrire garanzia sufficiente – l’oggetto pareva monumento commemorativo ben migliore dello scritto agli occhi di un mondo che non sapeva scrivere e che non capiva il latino”.

La società feudale, “per assicurare il concatenamento di tutte le relazioni sociali”, poneva il suo fondamento nella memoria collettiva inscritta nel costume, il quale aveva tutta la rigidità e la sacralità della tradizione. “Se ci si ponevano dei quesiti su questo o su quel punto di un tale diritto, bisognava procedere alla traduzione in parole dei ricordi. L’indagine orale, svolta periodicamente tra i membri [anziani] della comunità [….] depositari di una riserva […] più valida perché affondava le sue radici in un passato più remoto, costituiva uno degli organi fondamentali che fungevano da principi regolatori della società”. Un altro esempio è la coutume, “la lista degli obblighi” a cui il potere obbligava i sudditi adulti, che venivano riuniti una volta all’anno a cospetto del loro signore per recitarla, cosicché il signore potesse controllare che tutti stessero tenendo fede ai patti, facendola trascrivere a un suo scriba. La comparazione di questi testi nel corso delle generazioni permette di “cogliere il modo in cui il gruppo contadino resisteva alle pressioni del signore, scacciava dalla memoria questo o quel canone, questa o quella corvée, introducendo in compenso un certo privilegio conquistato in sordina”. Altre fonti d’indagine sulla memoria erano le testimonianze durante i processi, e d’altronde noi italiani dovremmo saperlo bene: il primo testo in volgare conosciuto nella storia della nostra lingua è la testimonianza di un contadino in un processo che riguardava una questione di confini agrari, noto come Placito di Capua: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.” (Capua, marzo 960 d.C.).

Duby si propone ora di “considerare un altro campo, quello della memoria genealogica. Il cristianesimo feudale è per molta parte […] una religione dei morti. Fra le manifestazioni della pietà popolare alcune delle più importanti dal punto di vista sociale si svolgevano presso le sepolture. Le tombe dei santi, visitate da folle di pellegrini che invocavano la salute del loro corpo o della loro anima. Le tombe degli avi, intorno a cui avevano luogo cerimonie periodiche che riunivano […] tutti i membri viventi del lignaggio. […] La loro organizzazione richiedeva dunque che si stabilisse un calendario, che si tenessero dei registri […]: gli obituari, i necrologi, quei libri che si chiamavano […] memoriales”. La funzione di questi testi e di queste cerimonie era di fissare “nelle coscienze individuali il senso di appartenere a un gruppo di cui la parte più piccola viveva in questo mondo, mentre la più grande viveva nell’altro, ed esigeva riguardi, cure, servizi; era, questa, una cellula immortale, il lignaggio, cementata […] da una memoria accuratamente alimentata, che costituiva la cornice fondamentale di quella società. Il ricordo degli avi era così mantenuto dal culto dei morti. Ma lo era anche dalla necessità di essere bene al corrente di tutti i rapporti di cuginanza che il rispetto dei divieti d’incesto imponeva a ciascuno. La Chiesa infatti dichiarava illeciti […] i matrimoni contratti al di qua del settimo grado di consanguineità. Quando, avendo accresciuto il suo potere, nel secolo XI, essa iniziò una battaglia più vigorosa per fare accettare le sue esigenze di un’esogamia tanto smisuratamente estesa da essere inattuabile, costrinse le famiglie a far ricerche su un’ascendenza di oltre un secolo e mezzo, a sbrogliare la fitta rete delle filiazioni, a contare i gradi, a presentarne la relazione davanti alle corti ecclesiastiche confermandola con giuramento. Simili procedure vennero a stimolare anche la memoria genealogica, naturalmente molto viva nell’aristocrazia dove la nozione stessa di nobiltà stimolava a farsi vanto di avi molto antichi”. I racconti genealogici si moltiplicarono nel momento in cui “la società aristocratica cominciava a rendersi conto di ciò che la minacciava nelle sue prerogative e si dedicava in tutti i modi a rafforzare le basi del proprio potere. […] Degli scrittori furono invitati a manipolare la memoria, a cercare le poche vestigia a cui questa si agganciava saldamente, a legarle le une con le altre, a inventare per colmare i vuoti”. La memoria sfuma nell’avo leggendario, e questo riflette i cambiamenti socio-economici che vanno dal valore dei meriti personali al valore della stirpe, dal legame personale con un sovrano o comunque un signore fino alle prerogative conquistate e garantite da generazioni e generazioni.

Duby a questo proposito ci mostra un altro aspetto: “la parte più viva, più netta, in questa massa fluttuante di ricordi viene a cristallizzarsi proprio attorno […] al patrimonio che attualmente gestisce l’anziano della famiglia, che i suoi antenati hanno gestito uno alla volta, ciascuno lasciando il deposito, quando entrava nel mondo dei morti, al maggiore dei figli, delle figlie o dei fratelli, e che il maggiore dei figli del presente detentore aspetta non senza impazienza di prendere nelle mani. Attorno a una casa, centro di un fascio di poteri, dove la dinastia ha le sue radici, dove il capo del lignaggio risiede, dove […] si dedica a procreare quelli che prolungheranno l’avvenire della parentela; la casa dove le figlie resteranno […] fino al matrimonio o fino alla morte, dove i figli passeranno l’infanzia, per andarsene, adolescenti, ad errare alla ventura, ma portandone il nome; […] la casa in cui non si smette mai di raccontare la storia della famiglia [che] è meno la storia di una stirpe che di una casa. Della maniera in cui questa casa si è arricchita, in cui ha difeso i propri diritti nel corso delle epoche, dei rischi che ha potuto affrontare, delle opportunità che ha potuto cogliere”. La memoria della stirpe è una memoria selettiva, in cui si conserva solo ciò che può essere usato come monito per i discendenti: “Dei gesti compiuti dai viventi e dai morti, tien conto solo di quelli, buoni o cattivi, suscettibili di tenere un posto efficace in un discorso educativo. È una memoria che insegna; strumento di una pedagogia. E per questa ragione, manipola insensibilmente i ricordi, li adatta alle esigenze del presente, li deforma per adattarli alla lenta evoluzione di una morale. Ecco perché tutti i personaggi del racconto […] si rassomigliano. Portano tutti il medesimo costume, ostentano negli stessi atteggiamenti la silhouette, il portamento giudicati confacenti, nel momento in cui la narrazione fu scritta, da coloro che l’avevano commissionata”.

Medioevo Maschio, di Georges Duby (parte 13)

L’undicesimo capitolo di Medioevo Maschio è intitolato La storia dei sistemi di valori. Si tratta di un capitolo piuttosto lungo, che quindi suddividerò in due parti. 

La storia globale di una civiltà risulta dei cambiamenti che si producono a livelli diversi, a livello di ecologia, di demografia, di tecniche di produzione e di meccanismi di scambio, a livello della ripartizione dei poteri e della situazione degli organi di decisione, a livello, infine, di atteggiamenti mentali, di comportamenti collettivi e della visione del mondo che domina questi atteggiamenti e questi comportamenti. Strette correlazioni uniscono questi diversi movimenti, ma ognuno di essi si svolge in maniera relativamente autonoma […]. La mia esperienza personale mi spinge a pensare che la storia dei sistemi di valori ignori i mutamenti subitanei”. Può accadere che la storia dei valori sia “turbata da fenomeni di acculturazione. Una cultura può, a un certo momento della sua evoluzione, trovarsi ad essere dominata, invasa, penetrata da una cultura esteriore, sia per traumatismi d’origine politica, come l’invasione o la colonizzazione, sia per […] l’incidenza di meccanismi di fascino o di conversione, essi stessi successivi al disuguale vigore, al disuguale sviluppo, al disuguale potere di seduzione delle civiltà messe a fronte”. Ma le culture sono resistenti al cambiamento. Duby prende come esempio “la lentezza della penetrazione del cristianesimo (che è solo un elemento fra altri presi a prestito dalla cultura romana) tra le popolazioni che le grandi migrazioni dell’alto Medioevo avevano messo in più stretto contatto con una civiltà meno rudimentale. L’archeologia rivela che i simboli cristiani si sono insinuati solo molto progressivamente fra le sepolture dei cimiteri germanici, e le credenze pagane, sotto il rivestimento superficiale di riti, di gesti e di formule imposti a forza al complesso della tribù dai capi convertiti, sopravvissero a lungo”.

Oppure, per prendere un secondo esempio, “quando l’espansione militare della cristianità occidentale, negli ultimi anni del secolo XI, fece scoprire, a Toledo, in Campania, a Palermo, dagli uomini di studio che accompagnavano i guerrieri, la sconvolgente ricchezza delle dottrine ebraiche e greco-arabe, questi intellettuali si precipitarono a sfruttarne i tesori. Ma il sistema di valori di cui erano portatori li trattenne per lunghi decenni dall’attingervi altro che delle tecniche, applicate sia all’arte di ragionare, sia alle misure delle cose, sia alle cure del corpo”. Ovviamente qui entrano in gioco anche i divieti della Chiesa, volti a “impedire a quegli studiosi di appropriarsi anche del contenuto filosofico e morale delle opere tradotte. Ma questi divieti furono sempre aggirati; la Chiesa totalitaria del secolo XIII non riuscì a impedire, in nessuno dei grandi centri di ricerca, la lettura e il commento del nuovo Aristotele. Tuttavia la potenza corrosiva di questo corpo dottrinale, due secoli più tardi, non era arrivata ad aprire nella coerenza del pensiero cristiano delle brecce di qualche importanza”.

Le tendenze alla crescita o al regresso dell’attività economica […], esse stesse strettamente legate al tracciato della curva demografica e alla modificazione delle tecniche, determinano sicuramente dei mutamenti nell’articolazione dei rapporti di produzione e nella distribuzione delle ricchezze ai diversi gradi dell’edificio sociale. Ma questi mutamenti si presentano più scaglionati nel tempo delle trasformazioni economiche che li producono, e si scopre che questi ritardi e questi rallentamenti sono in parte dovuti al peso dei complessi ideologici. Si determinano, in effetti, all’interno di un quadro culturale che si presenta ad accoglierli, ma che si mostra meno pronto a modificarsi […], costruito su un’armatura di tradizioni, che, di generazione in generazione, sono trasmesse, sotto molteplici forme, dai diversi sistemi d’educazione, tradizioni di cui il linguaggio, i riti, le convenienze sociali costituiscono il solido sostegno”. La tradizione è una forza inerziale rispetto al progresso, ma occorre ricordare che “gli ostacoli alle innovazioni si presentano con una forza molto variabile a seconda dei diversi ambienti culturali, che si giustappongono e si penetrano a vicenda in seno ad ogni società. […] Lo spirito conservatore appare particolarmente vivace nelle società contadine, la cui sopravvivenza a lungo è dipesa dall’equilibrio estremamente fragile di un insieme coerente di pratiche agrarie, sperimentate con pazienza, che sembrava temerario modificare, il che comportava un rigoroso rispetto di ogni consuetudine, e una saggezza di cui i vecchi apparivano i più sicuri depositari. Ma questo spirito, senza dubbio, non è meno vivo in tutte le élites sociali, apparentemente aperte alla seduzione delle idee, delle estetiche e delle mode nuove, ma, in verità, inconsapevolmente attanagliate dal timore di mutamenti meno superficiali che rischierebbero di mettere in discussione la loro autorità. È forse più vigoroso che ovunque nel clero di tutte le religioni, legato al mantenimento delle visioni del mondo e dei precetti morali su cui si fondano l’influenza che esercita e i privilegi di cui gode. Tali resistenze sono d’altronde naturalmente rafforzate dalla tendenza che guida […] i modelli culturali, costruiti in funzione degli interessi e dei gusti degli strati dominanti, […] a diffondersi di grado in grado verso gli strati inferiori dell’edificio sociale; l’effetto di simili slittamenti è di prolungare molto a lungo la vitalità di certe rappresentazioni mentali e dei comportamenti che ne dipendono, mantenendo sotto una modernità di superficie dove le élites trovano di che appagarsi, una solida base di tradizioni su cui possono trovare un punto d’appoggio le aspirazioni conservatrici”.

Naturalmente, se fosse sempre così ogni cambiamento sociale e culturale sarebbe solo apparenza. Infatti, le aspirazioni conservatrici “si trovano di fatto ad essere contrastate nei momenti in cui l’evoluzione più rapida delle strutture materiali rende più porose le barriere interne ed esterne e favorisce le comunicazioni e le osmosi, sia per il rallentarsi delle solidarietà familiari, sia per l’apertura ad altre culture, sia per il vacillare delle gerarchie. Come conseguenze più dirette si presentano i mutamenti che si verificano nelle strutture politiche, nella misura in cui una nuova distribuzione dei poteri può tradursi nella deliberata intenzione di modificare il sistema d’educazione”. Il sistema politico è il più facile da alterare, e dal controllo del sistema politico discende la capacità di intervenire sugli altri sistemi. Comunque, Duby sottolinea che il punto è un altro: “Importa […] scoprire quali sono in seno alla società i gruppi d’individui che, per la loro posizione professionale e politica, per la loro appartenenza a una certa fascia d’età si trovano ad essere meno soggetti al peso delle tradizioni e più portati a combatterle; importa ugualmente misurare la potenza di cui dispongono effettivamente questi agenti innovatori. Ma qualunque sia loro importanza e la loro capacità di sovvertimento, il sistema culturale oppone alla loro azione un’architettura molto salda”.