Il dominio maschile, di Pierre Bourdieu (parte 1)

So che è un po’ che non scrivo, quasi due mesi in realtà da quando ho terminato la serie su Georges Duby, ma sono stata immersa nei miei impegni privati e “professionali” relativi all’università. Ed è proprio in questo contesto che mi sono messa a leggere Il dominio maschile (pubblicato per la prima volta, in francese, nel 1998) di Pierre Bourdieu (1930-2002), un libro che – onore al merito – continua a essere parte del catalogo di saggistica dell’Universale Economica Feltrinelli. Il che vuol dire che potete trovarlo per la modica cifra di nove euro, o anche un po’ meno quando nelle librerie c’è lo sconto del 25%: l’Universale Economica Feltrinelli è spesso parte di questo tipo di promozioni, e questo secondo me è uno di quei libri seminali per gli studi di genere e la teoria sociologica, in cui la profondità di analisi dell’autore rifulge come una gemma.
Bourdieu è un autore che ha dato alla sociologia contributi determinanti nel definirla come disciplina, e un autore che ho incontrato in quasi tutti i miei corsi, da sociologia del linguaggio a sociologia dei processi culturali. Sono convinta che sia il più grande sociologo della seconda metà del ‘900, oltre che uno dei miei miti e fonti di ispirazione nel mio pantheon personale. Un mio grande rammarico è stato il fatto che nei miei corsi non ci sia stato il tempo di affrontare la prospettiva di Bourdieu sul genere, ed è il motivo per cui ho comprato questo libro. Spero di essere in grado di darne una sintesi ragionata, un po’ come ho fatto con Duby.

Nel preambolo, l’autore ci racconta l’osservazione da cui muovono tutti i suoi interessi di ricerca: “il fatto che l’ordine stabilito, con i suoi rapporti di dominio, i suoi diritti e i suoi abusi, i suoi privilegi e le sue ingiustizie, si perpetui in fondo abbastanza facilmente […] e che le condizioni d’esistenza più intollerabili possano tanto spesso apparire accettabili e persino naturali”. E, continua, “ho sempre visto nel dominio maschile, nel modo in cui viene imposto e subìto, l’esempio per eccellenza di questa sottomissione paradossale, effetto di quella che chiamo la violenza simbolica […] invisibile per le stesse vittime, che si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza o, più precisamente, della mis-conoscenza, del riconoscimento e della riconoscenza o, al limite, del sentimento”. Già dalla prima pagina, quindi, si dispiega la tesi dell’autore: quello del patriarcato è un “dominio esercitato in nome di un principio simbolico conosciuto e riconosciuto dal dominante come dal dominato”. In altre parole, le donne crescono in un ordine culturale patriarcale che le porta ad accettare l’androcentrismo, cioè il fatto che al maschile è associato un maggiore valore e prestigio, come parte della realtà delle cose, senza avere gli strumenti per comprendere che questo ordine culturale e simbolico è una costruzione sociale e che possono esistere altri ordini culturali e simbolici. Bourdieu parla di contesti in cui il patriarcato non è scalfito da un movimento femminista, in cui non c’è ancora stata un’emancipazione delle donne e un lungo lavoro di elaborazione della condizione femminile volto a riflettere su questo dominio e a cercare di liberarsene, o, come dice Bourdieu stesso, a smontare “i processi responsabili della trasformazione della storia in natura, dell’arbitrio culturale in qualcosa di naturale“.

Bourdieu analizza una società diversa dalla nostra, quella dei cabili, perché ritiene che il fatto che tutti noi siamo immersi nella nostra cultura, in cui siamo cresciuti, come dei pesci nell’acqua, ci impedisca di vedere cose che invece è più facile scorgere attraverso il distanziamento che ci offre l’analisi di altre culture. Egli scrive: “Le apparenze biologiche e gli effetti assolutamente reali che ha prodotto, nei corpi e nei cervelli, un lungo lavoro collettivo di socializzazione del biologico e di biologizzazione del sociale si coniugano per rovesciare il rapporto tra le cause e gli effetti, e per far apparire una costruzione sociale naturalizzata (i “generi” in quanto habitus sessuati) come il fondamento in natura della divisione arbitraria situata alla radice sia della realtà sia della rappresentazione di essa”. Ciò vuol dire che i modi in cui uomini e donne sono, le loro differenze, sono prodotti dall’ordine culturale patriarcale, e non il contrario: il patriarcato si mantiene costruendo uomini e donne come esseri diversi con caratteristiche e ruoli sociali diversi, non si è formato perché uomini e donne hanno sempre avuto queste caratteristiche e questi ruoli sociali, e questo è confermato dallo studio delle società del Paleolitico, prima che l’invenzione dell’agricoltura e la nuova forma della società derivante dalla stanzialità imponessero ruoli diversi a uomini e donne, segregando le donne al di fuori della sfera pubblica.

Il primo capitolo del saggio è intitolato “Un’immagine ingrandita”. L’autore lo apre notando che tutti noi “abbiamo incorporato, sotto forma di schemi inconsci di percezione e di valutazione, le strutture storiche dell’ordine maschile; rischiamo quindi di ricorrere, per pensare il dominio maschile, a modi di pensiero che sono essi stessi il prodotto di tale dominio”. Bourdieu ci descrive la società che vuole analizzare: “I contadini delle montagne cabile hanno conservato […] strutture che, in quanto protette dalla coerenza pratica, relativamente inalterata, di condotte e discorsi parzialmente sottratti al tempo dalla stereotipizzazione rituale, rappresentano una forma paradigmatica della visione “fallonarcisistica” e della cosmologia androcentrica che, comuni a tutte le società mediterranee, sopravvivono, ancora oggi […], nelle nostre strutture cognitive e sociali”. Si tratta quindi di una cultura con tratti in comune con molte società dell’area mediterranea, ma in cui il valore rituale della tradizione ha fatto sì che le strutture che Bourdieu vuole osservare si siano conservate in forme più “leggibili” rispetto a società come quella italiana, greca o turca, perché i berberi della Cabilia non hanno una tradizione scritta, ma anche perché nella società cabila “l’ordine della sessualità non è costituito in quanto tale e le differenze sessuali restano immerse nell’insieme delle opposizioni che organizzano tutto il cosmo, gli attributi e gli atti sessuali sono investiti da una serie di determinazioni antropologiche e cosmologiche. Ci si condanna quindi a non riconoscerne il significato profondo se si pensa secondo la categoria del sessuale in sé”. Per i cabili, la differenza sessuale è solo una delle molteplici differenze che costituiscono l’ordine del mondo, della natura: era così, per esempio, anche per la filosofia di Pitagora, che inscriveva la coppia uomo/donna all’interno di una serie di altre coppie tipo pari/dispari, caldo/freddo, alto/basso, ecc, e interpretava tutto l’universo attraverso queste coppie di opposti, che rappresentavano la “logica della natura”. Bourdieu nota che questa “cosmologia sessualizzata” ha radici “in una topologia sessuale del corpo socializzato, dei suoi movimenti e dei suoi spostamenti immediatamente investiti di una significazione sociale, dove il movimento verso l’alto è per esempio associato al maschile (con l’erezione, o la posizione superiore assunta dall’uomo nell’atto sessuale)”. “Questi schemi di pensiero” – scrive il sociologo – “registrano come differenze di natura, inscritte nell’oggettività, scarti e tratti distintivi […] che essi stessi contribuiscono a far esistere e contemporaneamente ‘naturalizzano’ inscrivendoli in un sistema di differenze, tutte altrettanto naturali all’apparenza. Ne deriva che le anticipazioni generate da tali schemi vengono incessantemente confermate dal corso del mondo”.
In altre parole, se si cerca di interpretare l’universo cercando coppie di differenze, è probabile che si troveranno coppie di differenze: le categorie di interpretazione della realtà plasmano la percezione della realtà.

E così facendo, queste differenze che sono il prodotto del modo in cui i cabili pensano alla natura appaiono come un dato di fatto, una caratteristica della natura, e “non si vede come potrebbe divenire consapevole il rapporto sociale di dominio che è alla radice di tali schemi e che, grazie a un rovesciamento completo delle cause e degli effetti, si presenta come un’applicazione fra le tante di un sistema di rapporti di senso perfettamente indipendente dai rapporti di forza”. “Il sistema mitico-rituale svolge […] un ruolo perfettamente equivalente a quello assunto dal campo giuridico nelle società differenziate: nella misura in cui i principi di visione e di divisione da esso proposti sono oggettivamente adeguati alle divisioni preesistenti, tale sistema consacra l’ordine stabilito, facendolo accedere all’esistenza conosciuta e riconosciuta, ufficiale”. Veniamo quindi a indagare la divisione su cui si fonda il dominio maschile: “La divisione tra i sessi sembra rientrare nell’ordine delle cose […]. Essa è presente, allo stato oggettivato, nelle cose […], in tutto il mondo sociale e, allo stato incorporato, nei corpi, negli habitus degli agenti, dove funziona come sistema di schemi, di percezione, di pensiero e d’azione”. In altre parole, la divisione fra i sessi è una categoria, ovvero è al contempo un’unità sociale e una struttura cognitiva che circoscrive quell’unità sociale. Fa parte del dato per scontato, e dare qualcosa per scontato è possibile solo attraverso “la concordanza tra le strutture oggettive e le strutture cognitive, tra la conformazione dell’essere e le forme del conoscere, tra il corso del mondo e le attese ad esso relative”. “Questa esperienza coglie il mondo sociale e le sue divisioni arbitrarie, a cominciare dalla divisione socialmente costruita tra i sessi, come naturali, evidenti, e in quanto tali portatori di un riconoscimento pieno di legittimità”.

“La forza dell’ordine maschile si misura dal fatto che non deve giustificarsi: la visione androcentrica si impone in quanto neutra”, scrive Bourdieu, e in una nota a piè di pagina aggiunge che “sia nella percezione sociale sia nella lingua il genere maschile appare come non contrassegnato, neutro, in qualche modo, per opposizione al femminile, esplicitamente caratterizzato”. Un modo per dire che il maschile è l’impostazione cognitiva di default, mentre il femminile risalta proprio per il fatto che non lo è. “L’ordine sociale funziona come un’immensa macchina simbolica tendente a ratificare il dominio maschile sul quale esso si fonda: è la divisione sessuale del lavoro, […] è la struttura dello spazio, con l’opposizione tra il luogo d’assemblea o di mercato, riservato agli  uomini, e la casa, riservata alle donne […], è la struttura del tempo […], con i momenti di rottura, maschili, e i lunghi periodi di gestazione, femminili. Il mondo sociale costruisce il corpo come realtà sessuata e come depositario di principi di visione e di divisione sessuanti […]: è attraverso di esso che si costruisce la differenza tra i sessi biologici, conformemente ai principi di una visione mitica del mondo radicata nel rapporto arbitrario di dominio degli uomini sulle donne, anch’esso inscritto, con la divisione del lavoro, nella realtà dell’ordine sociale. La differenza biologica tra i sessi […] e, in modo particolare, la differenza anatomica tra gli organi sessuali può così apparire come la giustificazione naturale della differenza socialmente costruita tra i generi e in modo specifico della divisione sessuale del lavoro”.