Il corpo elettrico

Dopo più di un anno in cui questo blog è rimasto silenzioso, oggi riprendo a scrivere perché vorrei mettere ordine nei miei pensieri rispetto a un libro che ho appena finito di leggere, e che mi ha lasciato qualcosa di irrisolto, di incompleto. È strano ricominciare a scrivere così, all’improvviso, dopo tanto tempo, ma ci sono cose che reclamano il loro spazio, e spesso la scrittura è il modo migliore per dare forma alle idee e trovare quello che non riesco ad afferrare.

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Il corpo elettrico di Jennifer Guerra è un libro che mi ero ripromessa di leggere da parecchio tempo. Mi ha colpita da subito la copertina, con questa vibrante illustrazione di Caterina Ferrante, e il sottotitolo: “Il desiderio nel femminismo che verrà”. Mi ha colpita anche il fatto che io e l’autrice siamo coetanee, ed è difficile in Italia che una voce della mia generazione (per non parlare di quelle più giovani) abbia una visibilità nella sfera pubblica, soprattutto se parla di femminismo e questioni di genere.

Adesso che l’ho finito, lo poggio con un senso di incompiutezza: non ho trovato quello che mi aspettavo, tra le pagine di questo libro. Mi aspettavo un libro intimo, ruvido, centrato sulla pratica del partire da sé. Un libro che parlasse di cosa significa abitare un corpo di giovane donna, che parlasse di sessualità e vulnerabilità, di sangue e carne, di emozioni e sensazioni.
Non ho trovato tutto questo nel libro di Jennifer Guerra: il corpo del titolo è un corpo politico, è il corpo delle lotte per portare il personale nel politico e abbattere la barriera che confinava le esperienze delle donne nel privato, è il corpo oggetto del male gaze (interiorizzato e non) e ridotto a oggetto sessuale, il corpo a cui è richiesto di occupare meno spazio possibile e di essere sempre piacevole e performante, il corpo (anzi, i corpi) trans come nuovo soggetto politico femminista, il corpo come materia prima su cui si inscrivono i processi di socializzazione al genere, con i loro ruoli, i loro stereotipi, le loro aspettative. È il corpo che sanguina per il ciclo mestruale o che cerca di mettere in pausa la propria biologia, è il corpo delle vittime di femminicidio e stupro.

È il corpo come oggetto del discorso, come fulcro attorno a cui il patriarcato costruisce l’oppressione delle donne e il femminismo cerca di costruire la loro liberazione. Il corpo delle donne è da sempre la materia prima su cui si inscrivono le norme sociali, il sito del decoro e della rispettabilità, sempre attraversato da tensioni contrastanti e contraddittorie, esposto allo sguardo e al giudizio altrui come oggetto estetico, erotico, morale. Il nostro corpo troppo spesso è ingombrante perché parla al posto nostro, condiziona la prima impressione che gli altri avranno di noi, non può mai essere reso neutro. Qualsiasi scelta di posizionamento cerchiamo di compiere con il nostro corpo, ci saranno sempre dei significati che sfuggono al nostro controllo. Sul nostro corpo si inscrive la differenza, e molti discorsi del femminismo hanno cercato di venire a capo di ciò che questa differenza rappresenta, al di là di ciò che la cultura patriarcale ha inscritto su di essa per giustificare la subordinazione delle donne. In sintesi: il corpo femminile è un campo di battaglia. Immerse in una cultura che non smette di riversare sui nostri corpi aspettative e norme, come femministe lottiamo per farci strada attraverso il rumore e cercare di individuare il segnale, per grattare via dai nostri corpi i significati di cui li ha rivestiti il patriarcato, decostruire i condizionamenti culturali e ritrovare noi stesse a partire dalla materialità della nostra esperienza. Per trovare noi stesse nei nostri corpi, smettere di percepirli come un contenitore ingombrante e imperfetto ma arrivare a comprenderli come noi. Come una dimensione del nostro stare nel mondo.

Quello che ho trovato paradossale è che in un libro dedicato al corpo sia proprio il corpo a scomparire. Quello di Jennifer Guerra è un libro di testa, dove in qualche modo il corpo è tenuto a distanza. Dove la riflessione riguarda appunto i significati che sono stati impressi sui corpi delle donne e i tentativi delle donne attraverso il femminismo di riappropriarsi dei propri corpi. Ma in cui il corpo non è mai soggetto, e credo che questo sia perché è ancora difficile per una donna, soprattutto una giovane donna, fare un discorso autorevole partendo dalla propria esperienza, dalla propria soggettività e dal proprio vissuto. Forse sono io che stavo cercando parole per comprendere il rapporto con il mio corpo in questa fase della mia vita, dove sto scoprendo di non poter neutralizzare il corpo e forse di non volerlo nemmeno. Dove sto iniziando a sentirmi a mio agio con la mia femminilità, con l’idea di poter essere bella e perfino desiderabile, di potermi muovere nel mondo sentendo che c’è posto anche per me. Insomma, una fase della mia vita in cui non mi sento più definita dalle mie insicurezze e avvolta da un costante senso di inadeguatezza, in cui non mi aspetto più di trasformarmi un giorno in una versione adulta, fiera e sicura di sé di me stessa, ma in cui sto scivolando in questa nuova dimensione giorno dopo giorno.

Ma non posso non sentire, chiuso questo libro, che forse c’è un’opportunità mancata, quella di ripartire dall’esperienza personale per costruire un linguaggio collettivo, corale, femminista, sui nostri corpi e sulle tensioni che li attraversano. La rabbia e il desiderio, la fragilità e l’entusiasmo, il dolore e la gioia. Sono tutte dimensioni che il femminismo ha esplorato attraverso l’autocoscienza e il partire da sé, per rendere dicibile l’esperienza collettiva delle donne attraverso un mosaico di esperienze individuali, che potessero diventare la base per trovare le parole, per confrontarsi, per capirsi. Oggi, credo che si siano erosi gli spazi dove poter fare autocoscienza, dove potersi raccontare senza essere giudicate, dove poter mettere a tema tutte le contraddizioni che ci attraversano e con cui lottiamo, dove poter cercare di districare i nostri desideri da quello che abbiamo interiorizzato e che sentiamo che dovremmo volere. Per fare le domande imbarazzanti e sentirci meno sole con le nostre imperfezioni.

Il titolo del libro parla di un corpo elettrico, un corpo vibrante, pieno di energia, animato da uno slancio che non si può contenere, l’entusiasmo dell’aver appena ricevuto una buona notizia, il primo abbraccio appena scesa dal treno, quella tensione che fa tremare le gambe quando il prof scrive “30 e lode” sul libretto e tu esci dall’aula con il desiderio di ridere, urlare e correre. Questo tipo di energia vitale, creativa, gioiosa, è qualcosa che mi è mancato nella sua dimensione collettiva del femminismo. Mi è mancato perché le rare volte in cui ho partecipato a una manifestazione mi sono sentita sola in mezzo a delle estranee, non parte di qualcosa di grande, straripante e liberatorio, di una marea per usare una metafora cara al femminismo. Ma questo tipo di energia manca anche in questo libro. Non riesco a sentire questo libro vibrare di emozioni, non riesco a sentire il personale che diventa politico, nella rabbia e nella gioia, nella fatica e nello slancio.

Il sottotitolo pone l’enfasi sul desiderio nel femminismo che verrà, suggerendo che l’autrice immagina e prospetta un ruolo per il desiderio nella pratica femminista, un ruolo che avevo immaginato come quello di aprire spazi di possibilità per immaginare nuovi orizzonti per il domani. Il desiderio è una cosa sfaccettata, difficile da mettere a tema. Sia nella sua dimensione più strettamente sessuale – riusciamo, noi donne, a percepirci come soggetti desideranti, a parlare dei nostri desideri con parole nostre, a voce alta? A vivere la nostra sessualità come una parte gioiosa delle nostre vite? – sia nelle sue altre declinazioni – cosa vogliamo, davvero? Cosa ci rende felici? Dove sentiamo di essere autenticamente noi stesse, libere e piene di energia?

Abbiamo parole per parlare di tutto questo?

Un caro amico ha fatto un editing (non richiesto, ma una di quelle cose inaspettate che aprono spazi di possibilità) della prima versione pubblica di questo post. Quando stavo parlando di “ripartire dall’esperienza individuale per costruire un linguaggio collettivo, corale, femminista sulla rabbia e sui desideri, sulle fragilità e gli entusiasmi”, ha aggiunto “Sulle tensioni dolorose eppure cariche di gioia che attraversano i nostri corpi e li rendono, infine, così belli”. Sul momento non l’ho capito – io avrei usato l’aggettivo luminosi – ma ne abbiamo parlato, e capisco la sua scelta. Oggi, scriverei “Dove sentiamo di essere autenticamente noi stesse, belle, libere e piene di energia?”. Perché se è vero che non dovremmo avere bisogno di sentirci belle per sentirci potenti, la forza di cui parlo non è una forza piena di spine o di spigoli, ma è una forza gioiosa, e nella gioia c’è spazio per la bellezza. Non la bellezza normativa che ci opprime facendoci sentire sempre sotto giudizio, sempre inadeguate (non può essere gioiosa una bellezza così avvilente che non riusciamo nemmeno ad apprezzarla negli altri senza sentire una fitta di inadeguatezza nel petto) ma la forza liberatoria del sentire che possiamo davvero risplendere libere e fiere, ed essere belle in quanto libere e fiere, come in quelle giornate perfette di cielo azzurro, nuvole bianche e sole caldo sulla pelle in cui andando in bici e guardando l’orizzonte di campi verdi il mondo sembra infinito e meraviglioso e farne parte non costa nessuno sforzo, solo un’assoluta semplice libertà.

Avrei voluto che il libro di Jennifer Guerra mettesse a tema queste dimensioni, che mi raccontasse come i nostri corpi elettrici e desideranti possono costruire il femminismo che verrà, partendo dalla sua esperienza di giovane donna. Forse avrei voluto che mi raccontasse le cose che non ho il coraggio di raccontare, cose che molte di noi tengono imbottigliate perché non abbiamo amiche così intime da poter parlare con loro di sesso e di mestruazioni, cose che molte di noi tengono imbottigliate perché è più facile che affrontare l’incomprensione degli altri e dover difendere le proprie esperienze e le proprie percezioni.

Il libro che mi trovo davanti non è il libro che cercavo. Questo post è la storia del mio rapporto con questo libro, e non ho un modo per chiuderla perché Il corpo elettrico non ha risposte per me. Ho scritto molto e mi sento svuotata, il che significa che ho scritto abbastanza. Ho almeno delineato i contorni di quel prurito che non riesco a grattare, ma di cui il libro di Jennifer Guerra è solo un involontario catalizzatore. Forse tornerò a scrivere, forse no. Affido questa riflessione ai venti dell’Internet, solo per togliermela dal petto e sentire che c’è una compiutezza che è diversa da quella di un documento Word destinato a sparire in qualche cartella di cui mi ricorderò fra anni. Su un post c’è un punto fermo alla fine che è davvero una fine. Per oggi basta così.