La socializzazione della donna prima degli anni ’70

Da “Ambivalenza: la socializzazione della donna“, di Judith M. Bardwick, all’epoca assistente di Psicologia all’università del Michigan, ed Elizabeth Douvan, all’epoca professoressa di psicologia all’università del Michigan, in “La donna in una società sessista“, a cura di Vivian Gornick e Barbara K. Moran (prima edizione italiana, 1975, prima edizione statunitense, 1971).

“Fin dall’infanzia i bambini tendono a un comportamento che suscita particolari tipi di reazione da parte dei genitori, dei fratelli maggiori e di chiunque venga a contatto col bambino. Queste reazioni sono il risultato della combinazione dei valori del singolo individuo – che, per esempio, può attribuire un particolare valore a un comportamento notevolmente estroverso – e di ciò che la società intende genericamente per un comportamento accettabile da parte del bambino. La socializzazione si avvale delle pressioni che spingono il bambino a cercare di suscitare reazioni accettabili – l’essere gratificato, punito, ignorato o vedere anticipate le proprie aspettative”.

“I maschi sono più attivi, hanno maggiori stimoli fisici, sono più inclini a comportarsi aggressivamente, hanno più precoci esperienze sessuali a livello genitale e paiono avere capacità conoscitive e percettive meno sviluppate di quelle delle bambine della stessa età. In generale, le bambine sono fisicamente meno attive, si mostrano meno inclini all’aggressività fisica, sono più sensibili al dolore fisico, hanno una sessualità a livello genitale nettamente inferiore e mostrano capacità verbali, percettive e conoscitive maggiori rispetto ai maschi. […] Le bambine hanno una maggior capacità di analizzare e rispondere anticipatamente alle esigenze dell’ambiente in cui vivono; inoltre hanno una maggior facilità di parola. Il comportamento caratteristico delle bambine tende a infastidire i genitori meno di quello dei maschi. Le capacità percettive, conoscitive e verbali che per ragioni ignote costituiscono una caratteristica più accentuata nelle femmine permettono loro di analizzare e prevenire le richieste degli adulti e di uniformare il proprio comportamento alle loro aspettative“.

“Molte reazioni caratteristiche, che possono variare da un comportamento molto femminile alla massima esuberanza fisica, sono considerate accettabili nella bambina. Quanto ai maschietti, non viene accettato né un comportamento passivo ed effeminato, né un comportamento aggressivo ‘da ragazzaccio’. A partire dai due anni o due anni e mezzo circa, età in cui si situa il passaggio dall’infanzia alla prima fanciullezza, i maschi subiscono più numerose proibizioni in una più vasta gamma di tipi di comportamento. Inoltre, e ciò ha una particolare importanza, la dipendenza dagli altri, normale in tutti i bambini piccoli, è permessa alle bambine e proibita ai maschietti. Perciò le bambine non vengono incoraggiate ad abbandonare le vecchie tecniche del rapporto con gli adulti e ad usarne altre per definire la propria identità, per manipolare il mondo fisico e per soddisfare le proprie necessità emotive. […] La stima di sé delle femmine rimane legata al fatto di essere accettate ed amate dagli altri, ed esse continuano a servirsi delle capacità altrui invece di sviluppare le proprie.”

“L’impulsività e la sessualità del maschietto sono fonte di enorme piacere indipendentemente dalle reazioni di chiunque; queste fonti di piacere costituiscono il nucleo di una precoce autocoscienza. Le proibizioni degli adulti contro la masturbazione, l’esplorazione e l’aggressività fisica minacciano non soltanto quegli stessi piaceri ma anche, in fondo, l’integrità dell’io. Perciò i ragazzi vengono sospinti, sia dai propri impulsi che dalle esigenze della società, ad abbandonare ogni atteggiamento di dipendenza dalle reazioni altrui per quanto concerne la stima di sé. […] Costretto all’autoaffermazione dalla perdita delle precedenti e più sicure fonti di stima di sé, il ragazzo inizia, prima dei cinque anni, a sviluppare la coscienza della propria individualità e un senso dei valori relativamente indipendenti dalle opinioni altrui. Egli guarda ai successi che ottiene nel mondo esterno e nella vita reale e inizia a valutarsi in base a questi successi, con criteri obiettivi“.

“Quando [i ragazzi] incominciano a subire pressioni da parte dei genitori affinché abbandonino il comportamento infantile, è perché questo tipo di comportamento viene ormai considerato femminile. Si esige che apprendano presto a essere virili. Fino alla pubertà, la femminilità è una qualificazione verbale, un attributo dato – qualcosa che non è necessario imparare. Ciò cagiona un notevole ritardo nella ricerca dell’identità della fanciulla, nello sviluppo dell’autonomia e nello sviluppo di criteri interiori di valutazione di sé. Continuando a dipendere dagli altri per quanto concerne il definirsi e l’affermarsi, ed essendo esperte nell’anticipare le richieste altrui, le fanciulle sono conformiste. Esse vengono premiate dai buoni voti, dall’affetto dei genitori, dall’approvazione degli insegnanti e delle loro pari. Come risultato, la fanciulla rimane remissiva e particolarmente adatta ad essere modellata dalla cultura”.

“[L’aggressività dei maschi e la passività e dipendenza delle femmine] cambiano o restano costanti a seconda di quanto le tendenze del singolo individuo si trovino in contrasto con i concetti culturali idealizzati della virilità e della femminilità. Nei ragazzi l’aggressività è consentita e incoraggiata, e soltanto le sue manifestazioni esteriori vengono corrette; nelle fanciulle la dipendenza e la passività sono permesse e incoraggiate, e soltanto la forma viene corretta. Le differenze sessuali dell’età infantile vengono accentuate attraverso il processo di socializzazione. Nell’insegnamento spesso predominano le donne, e le scuole sono istituzioni in cui si dà valore al conformismo che viene ampiamente insegnato da donne conformiste. […] I modi in cui il sistema scolastico premia l’alunno perpetuano il modello già in uso dei rapporti con i genitori – i ragazzi sono stimolati ulteriormente a rivolgersi verso i loro pari per sentirsi accettati, a sviluppare criteri di valutazione personali e a raggiungere obiettivi reali; le fanciulle sono ulteriormente esortate a mantenere uno stile di vita improntato alla normalità, al conformismo e al rifiuto delle innovazioni“.

“Con la comparsa dei mutamenti fisici apportati dalla pubertà le definizioni di normalità e di femminilità cambiano e si avvicinano rapidamente al modello stereotipato. Ora il comportamento e le qualità per cui precedentemente la fanciulla veniva premiata, specialmente la tendenza a competere con successo, potranno essere considerati caratteristiche negative. Anche la femminilità diventa un attributo da imparare – e questo compito è reso ancora più difficile dalla sensazione di ambivalenza che la fanciulla nutre nei riguardi del proprio corpo. La maturazione del sistema riproduttivo della fanciulla porta gioia e sollievo, una sensazione di normalità e la coscienza della sessualità. Contemporaneamente […] i mutamenti fisici si accompagnano alla perdita di sangue e alla sofferenza fisica, alla prospettiva di avere il corpo deformato dalla gravidanza, al timore del parto, alla coscienza di star diventando sessualmente desiderabile. […] L’adolescente deve iniziare a sviluppare un’autocoscienza femminile che accetti le funzioni e le future responsabilità del suo corpo ormai maturo; nello stesso tempo questi mutamenti determinano dei cambiamenti in ciò che la cultura esige da lei. […] La fanciulla […] inizia a essere punita se ottiene successi rilevanti grazie alla sua competitività e gratificata per i successi ottenuti con i maschi. Durante l’adolescenza il processo di socializzazione la esorta a curare il proprio aspetto esteriore per attrarre gli uomini, per assicurarsene l’affetto, per essere la più corteggiata. Nello stesso tempo si ammonisce la fanciulla di non aver troppo successo in questo campo perché ne rimarrebbero minacciati i buoni rapporti con le amiche. Durante la pubertà essa apprende che potrà venire punita per eccesso di competitività in qualunque cosa sia importante per lei“.

 “[Le fanciulle] dovranno scendere a patti con la loro femminilità fisica e provarne piacere, e sviluppare una appropriata ‘femminilità’ psichica. […] Durante l’adolescenza stabilire un felice rapporto con gli altri diventa un’impresa che potrà essere fonte di grandi soddisfazioni e attraverso la quale ci si potrà definire. Quando si verifica questo mutamento nell’ordine di precedenza degli interessi […] le qualità personali come l’indipendenza, l’aggressività, la competitività, che potrebbero compromettere il successo nei rapporti con l’altro sesso, vengono meno. Mentre i ragazzi temono l’insuccesso, le fanciulle oltre a ciò temono il successo. […] In mancanza di successi indipendenti e oggettivi, le fanciulle e le donne sanno quanto valgono soltanto dalle reazioni altrui, prendono coscienza della propria identità soltanto dai loro rapporti come figlie, amiche, mogli o madri e, in senso letterale, personificano il mondo. […] Durante l’adolescenza come nell’età infantile, le femmine continuano a stimarsi nella misura in cui vengono stimate da coloro con i quali hanno rapporti affettivi”.

“La socializzazione insegna alle fanciulle a far uso di forme di aggressione meno dirette di quelle messe in atto dai ragazzi, come l’uso appropriato di ingiurie verbali o il rifiuto di un’altra persona. Questa aggressività è per lo più diretta verso persone alla cui reazione non si attribuisce un effetto catastrofico sulla stima di sé, cioè le altre donne. […] Nei rapporti fra uomini l’aggressività è esplicita e i rapporti di forza chiari; l’aggressività femminile è dissimulata, e i rapporti di forza raramente dichiarati. Negando e dissimulando l’animosità diviene inevitabile che una sorta di disonestà, un’incertezza diffusa si insinuino in ogni rapporto fra donne, dando origine a una nuova ansietà e a continui e crescenti sforzi diretti ad assicurarsi gli affetti”.

“Secondo Erik Erikson il compito più importante nell’adolescenza è quello di stabilire la propria identità. Ciò è più difficile per le fanciulle che per i ragazzi. Poiché la sua sessualità è più interiore, inaccessibile e diffusa, poiché nutre sentimenti contrastanti nei confronti delle funzioni del suo sistema riproduttivo ormai maturo, poiché non viene punita per la propria impulsività, poiché viene incoraggiata a rimanere dipendente, la ricerca della fanciulla di una propria identità è nello stesso tempo complessa e differita. Ai suoi problemi si aggiungono sia la coscienza del fatto che la cultura valuta maggiormente i successi maschili, sia la consapevolezza del fatto che non vi è più un’unica via sicura per conseguire con successo la femminilità. […] Fino alla adolescenza viene presentato loro il concetto di uguaglianza delle capacità, delle occasioni, e del modo di vivere. Ma talvolta, già durante l’adolescenza, esse ricevono chiaramente il messaggio della società che le ammonisce di non cercar di riuscire troppo bene, che competitività significa aggressività e ciò è poco femminile, che non uniformarsi mette in pericolo i rapporti con l’altro sesso. La virilità è chiaramente definita e si apprende attraverso i successi ottenuti individualmente competendo con gli altri. Per la fanciulla, le libertà che pubblicamente le vengono concesse, mescolate con le ambiguità della cultura in cui vive, danno luogo a un’immagine della femminilità tutt’altro che chiara. Poiché le appare molto vago come si possa diventare femminile e perfino cosa possa definirsi femminile, la fanciulla si adegua alla sola direttiva che le è chiara: rifugge da tutto ciò che è inequivocabilmente maschile“.

I caratteri personali che si evolvono come caratteristiche particolari dei sessi accrescono le probabilità di successo nei ruoli sessuali tradizionali. Che uno sia maschio o femmina, se ha qualità personali tradizionalmente maschili – obbiettività invece di soggettività, aggressività invece di passività, incentivi a conseguire il successo invece di temerlo, coraggio invece di conformismo, interesse al proprio lavoro, ambizione e iniziativa – avrà maggiori probabilità di successo in ruoli maschili. La socializzazione rafforza le tendenze originarie; per conseguenza sono relativamente poche le donne che possiedono queste qualità”.

“Non è casuale, perciò, che le donne predominino in professioni in cui vengono utilizzate qualità come la disciplina, la capacità di immedesimarsi negli altri e lo zelo, professioni in cui l’aggressività e la competitività sono assolutamente anomale. […] Nonostante l’ideale egualitario che proclama l’uguaglianza dei ruoli e dei contributi dei sessi, sia gli uomini che le donne stimano maggiormente le qualità e i successi maschili. Troppe donne attribuiscono al proprio corpo, alle proprie qualità personali e al proprio ruolo un’importanza secondaria. Finché saranno i criteri maschili a costituire il metro di valutazione delle attività, delle qualità e delle mete femminili, le donne non saranno uguali. […] Il motivo essenziale di questo discredito è che il mondo maschile è diventato la pietra di paragone con la quale si confronta tutto il resto. Finché vi sarà differenza fra i sessi, le donne saranno definite non-uomini, cioè qualcosa di non buono, di inferiore. Ed è importante comprendere che in una cultura simile, poiché ne fanno parte, le donne hanno interiorizzato questi valori culturali nocivi a se stesse. Quanto abbiamo descritto è ambivalenza, non conflitto”.

I contributi che la maggior parte delle donne dà al miglioramento e all’equilibrio dei rapporti, la loro abilità e autodisciplina, la loro opera nella vita, sono considerati inferiori sia dagli uomini che dalle stesse donne. E’ inquietante osservare fino a che punto le donne considerino le loro responsabilità, i loro scopi e le loro stesse capacità inferiori a quelle degli uomini […]. Il successo nei compiti tradizionali è il mezzo consueto con cui le fanciulle conseguono la stima e la fiducia in se stesse e si assicurano un’identità. In generale, esse hanno continuato, anche da adulte, a stimarsi nella misura in cui venivano valutate dagli altri; la fonte di stima è quindi il prossimo, e il miglior modo di guadagnarsela è restare entro i limiti del proprio ruolo tradizionale, senza competitività né aggressività“.

Le donne non sono inclini ad accettare ruoli o a perseguire scopi che mettono a repentaglio i loro importanti rapporti di dipendenza dal prossimo perché da quei rapporti traggono la maggior parte della stima di sé e della propria identità. Ciò perpetua uno stato di dipendenza psicologia che potrà giovare ai rapporti stessi ma nuoce all’autocoscienza di quelle donne che hanno interiorizzato i valori della cultura”.

“Né gli uomini né le donne che si accingono a sposarsi si aspettano una divisione equa dei privilegi e delle responsabilità. […] Pochi individui saprebbero invertire i propri ruoli senza provare la sensazione che il marito non sia ‘virile’ e la moglie non sia ‘femminile’. La virilità e la femminilità sono aspetti della personalità palesemente legati ai ruoli e il ruolo, indipendentemente da come lo si interpreti e da quanto ci si uniformi a esso, condiziona la misura dell’impegno“.

“Sebbene il modello stereotipato univoco esista ancora e in parte sia vitale, esso è anche semplicistico e inesatto. Sia gli uomini che le donne rifiutano ormai la vecchia divisione dei ruoli perché drastica e psicologicamente costosa, giacché costringe entrambi entro rigidi modelli di comportamento basati unicamente sul sesso. Ma un’era di mutamenti dà luogo a nuove incertezze e alla necessità di ridefinire con chiarezza la virilità e la femminilità, i cui nuovi criteri potranno offrire a entrambi i sessi una nuova autocoscienza. […] Per entrambi i sessi questo è un periodo di mutamenti in cui coesistono i nuovi e i vecchi valori, sebbene nelle nuove norme siano riconoscibili i vecchi modelli. […] Quando si nutrono ansie e incertezze riguardo alla propria femminilità un mezzo efficace per calmare i timori è un conformismo spinto al limite, una dedizione sviscerata ai valori tradizionali. In questo modo una donna crea un’immagine della femminilità che poi diffonde, viva ed esasperata, fra altre donne. Così il messaggio è chiaro, ed essa può essere maggiormente certa che quello che riceverà di ritorno la rassicurerà sulla propria femminilità. […] A mano a mano che nuove norme di comportamento acquisteranno chiarezza e autorità si svilupperanno ruoli, personalità e modelli di comportamento più flessibili. La libertà di scegliersi un ruolo è un fardello quando ve n’è la possibilità ma i criteri non sono chiari”.

 

Le donne nell’esercito italiano

Torno a parlare di donne soldato, dopo aver raccolto articoli di Io Donna sul tema che spaziano cronologicamente dal 2010 al 2015. La rivista ha dedicato, nel corso degli anni, numerosi articoli al tema, cercando di coprire tutti gli aspetti di una presenza ormai diffusa e sfaccettata (ricordo che l’esercito ha aperto alle donne nel 1999), ma che continua a sorprendere e generare scetticismo. Le dirette interessate, invece, minimizzano. Ma dati e testimonianze dipingono un quadro dove la parità è normalità, semplicemente.

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Il tenente Margherita Trovato, in servizio in Libano.

La presenza delle donne nell’esercito italiano è ancora fortemente minoritaria, ma in crescita: “oggi circa un quinto delle domande proviene da donne” e “sono circa 11mila le nostre soldatesse, il 4 per cento del totale, che nel solo Esercito raggiunge il 6“. Da notare inoltre ‘che l’Italia, a differenza di altri Stati non ci recluda alcun ruolo o specializzazione. Una parità assoluta’, come tiene a sottolineare il capitano Anna Chiara Rametta, al comando di 54 soldati – di cui cinque donne –  dello Squadrone Bricchetto in Libano, intervistata da IO donna del 17 gennaio 2015. Rametta è parte dell’operazione Leonte [parte della missione ONU “Unifil, impegnata dal 1978 a monitorare che Libano e Israele rispettino il cessate il fuoco lungo la blue line, tra le frontiere più sofferte del Medio Oriente”, come riporta Io Donna, ndr], che “è la più massiccia tra le nostre operazioni di peacekeeping, dopo quella in Afghanistan: 1.100 soldati (un quarto dei 4.462 militari attualmente dislocati in 30 aree critiche del mondo), fra cui 42 donne“.
‘Dopo una resistenza iniziale, i colleghi ormai non fanno più caso al sesso del comandante’, nota Rametta.
‘Il primo requisito per un militare non è la forza fisica, ma lo spirito d’adattamento’, afferma il caporal maggiore Elvira Reale, un’altra delle cinque donne dello Squadrone Bricchetto.

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Roberta Micoli durante una cerimonia.

Il 22 marzo 2014 Io Donna intervistava invece alcune sminatrici, come Vita Maria Citro, geniere del 2° Reggimento guastatori alpini di Trento, in servizio in Iraq, o Roberta Micoli, caporalmaggiore del 10° Reggimento Genio Guastatori, in servizio in Libano, che afferma: ‘Tra noi guastatori minex, la parità non è solo un dato di fatto, è un requisito indispensabile per operare nella massima sicurezza, visto che interveniamo in situazioni in cui è vitale agire con totale dedizione, da parte di tutti’.
L’articolo riporta che “le nostre militari impegnate in missioni internazionali [sono] 120 tra volontari, sottufficiali e ufficiali […]. Nelle forze armate il reclutamento di personale femminile dal 2006 avviene, infatti, senza limitazioni di genere per tutti i ruoli, copri, categorie e specialità“.

In un articolo del 23 febbraio 2013, Io Donna riportava: “Nella Guardia di Finanza il 27 per cento dei 15.672 aspiranti allievi ufficiali di quest’anno è rappresentato da donne. Ma non esistono più quote rosa e, tra gli ammessi, generalmente la percentuale femminile si dimezza“. L’articolo è dedicato in particolare alla vita nelle accademie militari, ai riti e i codici, e al modo in cui le ragazze si sono ambientate in pochi anni a un mondo che dall’esterno appare rigido e quasi anacronistico, ma che in realtà è semplicemente regolato dal merito e dall’onore.

Giada Romani, del 66° Reggimento aeromobile.
Giada Romani, del 66° Reggimento aeromobile.

Infine, nel 2010 Io Donna dedicava un servizio molto lungo (da pag. 64 a 78) alle donne nell’esercito, con una serie di interviste di cui trascrivo i brani più significativi. ‘Non le chiami soldatesse. Per noi sono semplicemente soldati: stessi doveri e stesse opportunità dei colleghi uomini’, introduce il colonnello Marco Centritto dell’Ufficio pubblica informazione dell’Esercito, ma potrebbe essere una chiosa.
Le soldate sono il 9 per cento dei volontari di truppa, le ufficiali e le sottufficiali il 5 per cento delle effettive. Ed è appena l’inizio: negli ultimi due anni hanno aperto i primi tre asili nido in caserma”, riportava Io Donna. Le storie delle soldatesse hanno in comune solo un elemento: la forte consapevolezza di aver trovato il proprio posto, e vale la pena di leggerle tutte, le trovate qui: L’esercito conta sempre più sulle soldatesse – IO donna. Ne riporto solo una, quella di Linda Fei. “E’ uno dei pochi reparti in cui una donna fa ancora notizia: ‘Effettivamente a Pistoia siamo una ventina su seicento’. Non ce ne sono molte, di paracadutiste. Poche arrivano, pochissime restano: ‘L’addestramento è massacrante per tutti, c’è chi non regge i cinque chilometri di corsa zavorrata e chi molla alle prime simulazioni di lancio’. Per i tenaci che superano la prova, il bello arriva su una piattaforma a tre, sei o nove metri di altezza. E’ allora che ragazzi e ragazze si ritrovano a gridare il proprio nome prima di lanciarsi nel vuoto verso un enorme telo che da là sopra sembra un fazzoletto minuscolo: ‘E’ il battesimo dell’aria: a quel punto ti tuffi perché hai fatto tanto per arrivare fin là’. Linda Fei a 28 anni è paracadutista mortaista ed è già stata in Kosovo, in Sudan e in Afghanistan alla base di Bala Murghab. ‘Paura ce n’è’ ammette senza una piega. ‘Ma ne provi più ascoltando dall’Italia i racconti di commilitoni e mass media. Una volta sul posto abbiamo le armi, l’addestramento, la mimetica: sappiamo cosa fare'”.

Roberta Pinotti, Ministra della Difesa (foto tratta da IVG.it)
Roberta Pinotti, Ministra della Difesa (foto tratta da IVG.it)

Sulla stessa linea è la stessa Ministra della Difesa Roberta Pinotti, che ricopre questa carica già dal precedente governo (il governo Renzi, per i lettori futuri) e il 10 maggio 2014, intervistata sempre da Io Donna, ebbe modo di dichiarare: “Sulle Forze Armate, così come su ogni altro argomento, vorrei non si ragionasse per stereotipi: non c’è un approccio ‘maschile’ o ‘femminile’ ai problemi della Difesa, c’è un modo diverso di affrontarli che cambia da ministro a ministro. Semmai se c’è una mia specificità, che penso discendere dal mio essere donna e che mi riconoscono altri, è di mettere in primo piano le persone: quando incontro uomini e donne in divisa, in Italia o nelle missioni all’estero, mi fermo con loro a parlare per capire come stanno vivendo quell’esperienza e per comunicare, di persona, che ciò che stanno facendo è importante per il Paese”.