Per le Pussy Riot

La canzone, la maglietta, la risata. La ragazza che ha reinventato il punk. Ci tenevo a segnalare questo link, in cui si parla delle radici culturali del movimento Riot Grrl, e di come la linfa vitale di una subcultura non si esaurisce nel momento in cui questa si spegne nel Paese d’origine, ma si evolve, si trasforma e diventa qualcosa di nuovo. Si carica di nuovi significati.

In Occidente sembriamo aver dimenticato che una volta la cultura popolare produceva persone che ritenevano loro dovere denunciare alcuni degli aspetti più inveterati della loro società, e che diventavano punti di riferimento per il dissenso. 

Questa frase mi è rimasta particolarmente impressa. Da grande fan dei Clash, le testimonianze che ho ricevuto dalla loro biografia riguardo a musica, critica sociale e impegno politico mi hanno colpita e sento la mancanza di voci altrettanto ribelli e determinate in questa società in cui sembra che il denaro abbia assorbito ogni ideologia, ogni valore. L’idea che una nuova generazione si faccia portatrice della rabbia del punk e della rivolta femminista del movimento Riot Grrl, reinterpretandole e facendone i simboli di qualcosa di totalmente nuovo, mi riempie d’energia ed ottimismo. Quella delle Pussy Riot è stata una sfida aperta, ribelle e finanche “sovversiva” al maschilismo dei poteri dominanti, la politica e la religione.

Purtroppo, sono consapevole che non è solo una questione di subculture alternative, in Russia la critica politica e il dissenso non sono presi morbidamente e i rischi che queste ragazze stanno affrontando sono reali. Ne parlano le ragazze di Un Altro Genere di Comunicazione in questi articoli: Pussy Riot condannate, ma in Italia sarebbe diverso?. Segnalo anche questa gallery da InternazionalePunk dietro le sbarre, che riprende anche le proteste seguite all’arresto delle ragazze, a riprova di come il cambiamento possa essere innescato da un’icona. Che è anche il tema centrale di V per Vendetta, splendido film il cui protagonista si ispira alla figura di Guy Fawkes, e che a sua volta ha ispirato il gruppo di “hacktivisti” di Anonymous. Insomma, in questo gioco di rimandi appare evidente come le scintille, gli ispiratori, coloro che catalizzano i cambiamenti, figure sorrette dal coraggio e dalle idee di cui si fanno simbolo, siano un bene essenziale per la società.

La performance delle Pussy Riot ha generato qualcosa di nuovo, di cui è difficile calcolare la portata. Serena Dandini scrive, sull’ultimo numero di Io Donna:

Una volta si diceva: “Una risata vi seppellirà”, ci auguriamo che questa formula magica sia ancora valida per il presidente con lo sguardo di ghiaccio: chissà, forse stavolta ha fatto male i suoi calcoli e quello che non sono riusciti a ottenere anni di sacrifici di un’opposizione perseguitata in tutti i modi, riesce per incanto a tre simpatiche monelle. Sarebbe troppo bello per essere vero, un contrappasso storico della portata di Davide e Golia. 

Per questo credo che la causa di queste ragazze, Nadezhda Tolokonnikova, Maria Aliokhina e Iekaterina Samutsevich, vada difesa. Loro sono diventate il simbolo di una causa per cui lottare. Maria Serena Natale, giornalista del Corriere della Sera, afferma:

Nella condanna associazioni per i diritti umani e oppositori vedono l’ennesima conferma della deriva autoritaria della Russia di Putin. Lo stile del capo è inconfondibile. Ma la stretta può rivelarsi uno scossone del sistema che si sente minacciato dall’interno. E che deve rigenerarsi se vuole stare al passo con il cambiamento irreversibile della società che questo processo ha svelato al mondo. Le Pussy Riot non faranno la storia della musica, di certo sono entrate in quella della Russia contemporanea. (da Le 3 amazzoni punk (condannate) che raccontano la nuova Russia).

In attesa di poter aggiornare il post, vorrei dedicare alle Pussy Riot attualmente sotto processo e alle loro compagne questa canzone. Keep on rockin’, girls!

Una persona che non conoscevo, mi documenterò. Intanto, mi limito a condividere e diffondere la notizia.

D I S . A M B . I G U A N D O

Ricevo e volentieri pubblico un scritto di Till Neuburg in occasione del cinquantesimo compleanno di Taslima Nasreen. Forse non tutti/e sanno chi è: un’occasione buona per impararlo.

Taslima Nasrin

Giorno di festa! di Till Neuburg

Oggi sabato 25 agosto, una donna molto speciale raggiunge la prima metà di un secolo di vita. Lo annuncio con la serena certezza che nel 2062 qualcun altro avrà l’onore di scrivere una dedica ‘doppiamente’ significativa di questa.

Per capire il valore di questa straordinaria combattente, partiamo qui da noi dove, per fortuna, abbiamo delle rompiscatole come Tina Anselmi, Emma Bonino, Paola Concia, Milena Gabanelli, Sabina Guzzanti, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Rossana Rossanda, Franca Valeri. Eppure, a ben trentasette anni dalla legalizzazione dell’aborto, le donne italiane sono tuttora una maggioranza discriminata – nel lavoro, nella politica, nell’economia. Il divario tra diritti costituzionali e realtà, è tuttora vergognoso.

Se qui, a pochi chilometri dal Vaticano…

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Il dischiudersi della vita

Non ho mai pensato molto alla maternità, al parto, alla nascita, se non come a qualcosa di astratto, un insieme di trasformazioni biologiche di cui avevo studiato le cause a livello del DNA, delle cellule, e poi del corpo, nel libro di scienze. Il modo in cui il nostro corpo predispone i gameti, attraverso la meiosi, con la metà esatta di cromosomi, per poter creare un nuovo essere con un patrimonio genetico unicamente suo, frutto di un rimescolamento casuale di due DNA, mi affascina. L’evoluzione è caos.

Nella donna il meccanismo della meiosi è complesso, e la maggior parte dei gameti vengono sprecati, mediante le mestruazioni, per darci la possibilità, incomparabilmente preziosa a livello di sopravvivenza della specie, di essere fecondate in ogni momento dell’anno e non solo durante il periodo dell’estro, come succede alla maggior parte dei mammiferi. A volte osservo il mio sangue mestruale e penso che una parte di quella massa rosso scuro costituiva le pareti dell’endometrio, predisposte per accogliere la possibilità di una nuova vita, una possibilità che non si è realizzata e che rimane sospesa nel mondo vasto e inconoscibile dei se. Immagino il mio utero, mi chiedo se sia un posto accogliente, il luogo dove qualcosa che conosco e al contempo ignoro totalmente potrebbe accadere, forse accadrà, una nuova vita potrebbe riposare in attesa di diventare una persona, oppure potrebbe scivolare per sbaglio, per un imprevedibile errore, e allora dovrei spezzare quella possibilità…

Cellule che si duplicano. Cellule che si duplicano ancora, e ancora, e ancora. E poi, non sempre, non per tutte, scatta qualcosa, quell’insieme di cellule diventa un soggetto, viene riconosciuto, e la donna lo chiama “figlio”, e la donna diventa “madre”. Un nuovo essere in potenza. Un futuro essere che nutrito dal sangue della donna che lo ospita, un essere che le appartiene e che non le appartiene. Oppure, niente. Un grumo di cellule, un errore, un peso che non si è in grado di portare, qualcosa che non si vuole scegliere. Qualcosa da cui ci si separerà, con dolore, con la consapevolezza di aver fatto la scelta – ingiudicabile, personale, soggettiva come nient’altro – giusta. O che si porterà con sé fino al momento di liberarsene, un dono, in qualche modo, per qualcuno che non si conosce e che non sfiorerà mai la vita di quella donna.

I miei pensieri vagano e mi identifico con un ovulo, che scende lentamente lungo le tube di Falloppio, una placida sfera che rotola, scivola, fino ad incontrare un nugolo di piccoli ed agili spermatozoi che le si schianteranno contro, morendo nel tentativo, per sciogliere gli enzimi che ne avvolgono la superficie, finché uno di loro potrà raggiungerne il cuore, e fondersi con esso. Zigote. La placida calma dell’ovulo sostituita dal fermento delle cellule in duplicazione. Pop. Pop. Pop. Uno, due, quattro, otto… qualcosa che si sta formando, pulsante, vivo. La stessa vita che ha increspato il brodo primordiale. Sostanze inerti che galleggiavano sull’acqua, il silenzio di un pianeta ancora giovane, incontaminato, e poi…pop. La prima cellula. Pop. Pop. Pop. Altre cellule. Non sappiamo come, non sappiamo perché, possiamo solo fermarci un attimo e guardare la prolifica, straordinaria varietà che la vita ha assunto intorno a noi, in noi. Come il silenzio si è riempito di suoni, la terra di piante, gli oceani di animali. Noi siamo solo un frammento di tutto questo, e siamo gli unici che possono conoscerlo.

In quanto donna, in me esiste la possibilità di replicare questa straordinaria trasformazione, la nascita. Non ci ho mai pensato veramente, poi oggi c’era questo telefilm, o film, non ho controllato neppure il titolo, in cui una giovane donna doveva partorire in casa perché non c’era tempo per condurla in ospedale, e l’ambulanza non sarebbe arrivata in tempo, quindi i suoi familiari dovevano assisterla da soli. Contrazioni, urla, frasi concitate, gemiti di dolore. In ospedale forse sarebbe tutto più asettico, ovattato, magari. Forse più semplice, più calmo. Quel grumo di cellule è diventato un individuo, ora, ed è tempo che sia condotto nel mondo. Nel dolore, nel sangue. Il ventre di una donna diventa così grande durante la gravidanza, a me è sempre sembrato troppo grande, troppo pesante da reggere, così grande da schiacciare la donna a cui appartiene, da cancellarla. Non voglio immaginare quanto deve essere traumatico e doloroso fare uscire un bambino dalla propria vagina.

Io non so. Tutto ciò che ho letto, studiato, che mi hanno detto, non basta, non serve. Sto scrivendo queste riflessioni perché un giorno, qualunque decisione io prenda, qualunque possibilità io accolga o respinga, sarò felice di poter sapere cosa pensava una ragazza di 17 anni quando ancora ogni scelta era lontana. Le mie parole non hanno altro valore che questo. Mi sono fermata e ho pensato al mio corpo, alla vita, all’origine, e tutto questo fa parte di me e al contempo non mi appartiene affatto, anzi, non posso conoscerlo, non posso afferrarlo, non c’è nulla di più distante da me, da ciò che sono. Sono cose a cui riesco a pensare solo dimenticandomi di me stessa, della mia individualità data dalle mie idee, le mie emozioni, i miei pensieri. Come se dovessi disconnettere la mia mente per focalizzare l’attenzione su ciò che riguarda solo il mio corpo, ciò da cui la razionalità è estranea. Ciò che non può essere pensato, ma solo sentito, e forse vissuto.

Eve Ensler, scrittrice e poetessa che ammiro moltissimo perché scrive le cose come io le sento, ed è capace di tradurre in parole, bellissime parole, intense ma delicate, forti ma eteree, quello che in me è solo un insieme di sensazioni confuse, parla di un parto in una poesia tratta dalla sua prima opera, I Monologhi della Vagina. Eve è una spettatrice, non la partoriente, e il suo unico figlio, Dylan, è stato adottato. La poesia si intitola Io ero lì nella stanza ed è dedicata a Shiva, sua nuora.

Io c’ero quando la sua vagina si aprì.

Eravamo tutti lì: sua madre, suo marito e io,

e l’infermiera ucraina con la mano

dentro la sua vagina, fino al polso,

che tasta e gira col suo guanto di gomma

parlando con noi disinvolta – come stesse aprendo

un rubinetto difettoso

Ero lì nella stanza quando le contrazioni

la costrinsero a trascinarsi carponi,

e a emettere strani versi da tutti i pori.

E ancora lì ore dopo, quando all’improvviso

cacciò un urlo orrendo,

fendendo con le braccia l’aria elettrica.

Ero lì quando la sua vagina si trasformò,

da timido buco sessuale

a tunnel archeologico, vaso sacro,

canale veneziano, pozzo profondo

con un minuscolo bambino in fondo,

che attende d’essere salvato.

Vidi i colori della sua vagina. Li vidi cambiare.

Vidi l’azzurro livido e rotto

il rosso pomodoro che ribolle

il rosa grigio, il bruno;

vidi il sangue come sudore imperlare gli orli

vidi il liquido bianco, giallo, la merda e i grumi

spingere fuori da tutti i buchi,

spingere forte e ancora più forte,

vidi in fondo al buco, la testa del bambino striata

dietro l’osso – un duro ricordo rotondo -,

mentre l’infermiera ucraina girava e rigirava

la sua mano scivolosa.

Ero lì mentre noi, sua madre e io,

tenendole una gamba per ciascuna

e spingendo a più non posso

contro lei che spingeva, l’aprivamo tutta;

mentre con voce asciutta

il marito contava: “Uno, due, tre”

e la spronava a concentrarsi, ancora di più.

Allora guardammo dentro di lei.

Non riuscivamo più a staccare gli occhi

da quel punto.

Dimentichiamo la vagina, tutti noi…

Cos’altro potrebbe spiegare quest’assenza

di timore reverente, di stupore?

Ero lì quando il medico

vi entrò con cucchiai da Alice

nel Paese delle Meraviglie

e sempre lì quando quella vagina

diventò una grande bocca lirica

che cantava con tutta la sua forza;

prima la testa, poi il braccio grigio e penzolante,

poi il veloce corpicino che nuota,

nuota svelto

verso le nostre braccia piangenti.

Ero lì dopo, quando mi voltai

e affrontai la sua vagina.

Restai lì, permettendo a me stessa

di vederla aperta, completamente esposta,

mutilata, gonfia e lacera,

sanguinare sulle mani del dottore

che la ricuciva con calma.

Restai lì e, davanti ai miei occhi,

la sua vagina all’improvviso

diventò un grande cuore rosso pulsante.

Il cuore è capace di sacrificio.

E così la vagina.

Il cuore è capace di perdonare e riparare.

Può cambiare forma per farci entrare.

Può allargarsi per farci uscire.

E così la vagina.

Può soffrire per noi e tendersi per noi,

morire per noi e sanguinare

e sanguinolenti immetterci

in questo difficile mondo meraviglioso.

E così la vagina.

Io ero lì nella stanza.

Io ricordo.

 

Una lettera.

La lettera del padre di James

Questa lettera è stata inviata ad un ragazzo di nome James, omosessuale, dal padre.

Il testo dice:

James, è difficile scrivere questa lettera, ma devo farlo. Spero che la tua telefonata non fosse per ricevere la mia benedizione per il tuo stile di vita degradante. Ho bei ricordi dei nostri momenti insieme, ma tutto questo appartiene al passato. Non aspettarti ulteriori conversazioni con me.

Nessun tipo di comunicazione. Non verrò a trovarti, e non ti voglio a casa mia. Hai fatto la tua scelta, anche se è quella sbagliata. Dio non ha voluto questo stile di vita contro natura.

Se sceglierai di non prendere parte al mio funerale, i miei amici e la mia famiglia capiranno. Auguri di buon compleanno e che tu possa avere una buona vita.

Nessuno scambio di regali sarà accettato.

Addio, papà.

Anch’io ho un padre che non accetta quello che sono, il mio essere femminista e sostenitrice della sperimentazione animale, e abbiamo avuto parecchie liti violente riguardo a queste cose. In certi momenti provo solo dell’odio, una rabbia insostenibile, che rende tutto rosso e mi fa venire voglia di fargli del male, di fargli così male che smetterà di guardarmi con quel suo sorrisetto arrogante, che riflette la sua convinzione che io non stia parlando sul serio, che io non abbia veramente delle idee mie. Vorrei spezzare quel sorriso sulla sua faccia. Fargli capire come ci si sente, quel tipo di dolore che deriva dal non sentirsi accettati per quello che si è davvero, dalla consapevolezza che la parte più forte e più vera di me viene presa per una sorta di stupido ghiribizzo da adolescente, che la mia rabbia viene considerata da “isterica”. Mio padre, il maschilista freudiano.

Quando quella sensazione svanisce, mi resta dentro solo un dolore profondo. Non posso fare a meno di piangere, e sebbene continui a ripetermi che non deve importarmi del giudizio di una persona che non si sforza di dialogare, di tentare di capire, ma che si limita a trinciare un giudizio senza conoscere, ma non ci riesco. Il suo giudizio – respinta, non accettata – mi ferisce più di quanto io sia disposta ad ammettere, e rialzarsi non è facile, solo mia madre riesce a confortarmi, lei che mi comprende fin dove le parole non possono arrivare, lei che sente il mondo come me. Nessun altro, non il pensiero degli amici, del ragazzo che amo, dei miei insegnanti, niente può scalfire minimamente quella sensazione di essere sbagliata, un rifiuto, un errore. Da parte di mio padre.

Da bambina lo ammiravo, solo ora mi rendo conto di quanto sia una persona meschina, ma nonostante questo, non posso non volergli bene, non posso non sentirmi da schifo quando queste cose succedono. Nessun graffio, nessun calcio possono infliggergli abbastanza dolore da ripagarmi. Non so neanche se mi sentirei davvero ripagata se riuscissi a fargli davvero male; so che è un mio problema il fatto di voler ripagare il dolore nell’animo con dolore fisico. Ma che altro? Non credo nel karma o in Dio, lui non conoscerà mai una punizione in un’altra vita per il male che fa a me e mia madre, e in questa vita non c’è nulla che gli importi che stia al di fuori di sé stesso.

Questa è la mia storia. Per questo ho la presunzione di poter comprendere ciò che deve aver provato James nel leggere quella lettera. Sentirsi respinto nel suo essere più intimo, più vero, dopo aver faticato ad accettarlo e lasciarlo emergere in sé. Trovare gelo e incomprensione dove ci si aspettava di condividere un momento difficile ma importantissimo, e magari una gioia. Essere cancellato in poche parole scribacchiate su un foglio, poche parole per dire che il tuo stesso padre ti sta eliminando dalla sua vita, nel giorno del tuo compleanno, e che tutto quello che ti rimarrà di lui sono un pugno di ricordi in briciole, di un passato che si trova al di là di una frattura insaldabile, e poche parole gelide e crudeli, che ti ricorderanno per sempre che per tuo padre sei un errore, un errore irrimediabile, che va asportato chirurgicamente dalla propria esistenza, come un tumore, rimosso e dimenticato.

Non posso fare a meno di pensare a James, con in mano quel foglio, incapace perfino di piangere, sopraffatto dal dolore, un dolore così forte da impedirgli di respirare. Un dolore all’altezza dello sterno di cui il mio è solo un pallido riflesso. Se quel pallido riflesso è sufficiente a farmi piangere e singhiozzare per ore, incapace di smettere, rannicchiata su me stessa e incapace di distendermi, di muovermi, quello di James può stroncare un’esistenza. L’esistenza di un ragazzo la cui sola colpa è di aver trovato sé stesso e non averlo negato. Penso al suo compagno, un’ombra silenziosa e con la morte nel cuore il cui conforto non può che risultare inutile. Penso a sua madre – dove sarà sua madre? Sarà d’accordo con il marito? Le sarà stato proibito di rivedere il figlio e piangerà per lui all’insaputa del marito? Penso ai fratelli di James, e non riesco a immaginarli. Non riesco a immaginare nient’altro, perché non voglio pensare ai vicini che bisbiglieranno di lui, pronunciandone il nome come se fosse macchiato di qualcosa di innominabile, senza rendersi conto che sono loro, con il loro bigottismo, a sporcare quel nome, a insudiciare l’esistenza di un ragazzo che avrebbe potuto essere felice. I loro sguardi scandalizzati, le frasi troncate a metà, l’identità di James per sempre silenziata e negata, il giudizio che corre di bocca in bocca, terra bruciata intorno a lui, tra le persone che conosceva e che un tempo gli erano state amiche.

James dev’essere un ragazzo coraggioso e molto amato per sopravvivere a tutto questo. Dev’essere un ragazzo dall’animo davvero generoso e nobile – come io non potrò mai essere – per perdonare il dolore che gli è stato inflitto.

C’è qualcosa in quella lettera che mi fa vibrare di rabbia, ed è l’insensibilità. La convinzione che “è sbagliato perché mi hanno detto che è sbagliato”, perché in un libro, scritto tremila anni fa, sta detto: “Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole” (Levitico, 18:22, in inglese “Thou shalt not lie with mankind as with womankind; it is abomination”), e quelle parole sono una verità (?) che non vuole guardare negli occhi degli individui, e scorgere il loro sguardo che chiede un riconoscimento concreto, di fronte all’astrattezza delle parole. James aveva chiesto a suo padre il riconoscimento del suo amore, e con esso della sua identità, della sua esistenza. Gli è stato negato. In nome di cosa? In nome di cosa…?

In nome di una convinzione che procede come un bulldozer sul cuore di quel ragazzo. Una convinzione che non si ferma neppure di fronte all’amore per un figlio. Quell’uomo ha semplicemente cancellato il suo affetto per James, senza fermarsi a considerare se quello che gli è stato detto poteva essere messo in discussione.

James è ancora vivo, per fortuna, e spero che sia felice; penso sia stato molto coraggioso a postare la lettera su Internet. Forse per lui condividere il suo dolore è stato un modo per esorcizzarlo, o forse voleva semplicemente che il mondo sapesse. E il mondo deve sapere. Prima di giudicare qualcuno, dovremmo imparare a scorgere la persona che ci chiede che il suo diritto ad esistere sia riconosciuto oltre l’etichetta che gli/le appiccichiamo addosso. Sempre.

Questa sarebbe potuta essere la storia di James. Pensateci.

Vota il tuo omofobo preferito!

Da un geniale post di M, amministratore della pagina Non pregare per me i problemi li risolvo col buonsenso II, un’ironica lista di tipologie di omofobici. Brillante e divertente. Il mio preferito, per inciso, è il 13 – anche se poi è quello che mi fa arrabbiare più di tutti. 

1 – Il Complottista: L’omosessualità è una malattia. L’OMS è stata spinta dalla lobby omosessualista a cancellarla dalla lista delle malattie.

2 – L’Allarmista: L’omosessualità non può essere naturale: se tutti fossero omosessuali l’umanità si sarebbe già estinta da un pezzo!

3 – Il tUmorato di Dio: L’omosessualità è contro natura. Lo dice la Bibbia, Dio disapprova.

4 – Il vaginocentrico: L’omosessualità non è naturale, perché l’ano non è un organo sessuale.

5- Il NonHocapitoUncazzoDallaVita: Due uomini che si baciano mi fanno vomitare, non dovrebbero farsi vedere pubblicamente. Due donne che lo fanno è eccitante. Posso partecipare?

6 – Il Coerente: Non ho nulla contro i gay (K) […] però mi fanno schifo (V).
(Dove K sta per Costante, e V per variabile.)

7 – L’Anarchico Casalingo:  A casa propria ognuno può fare quello che vuole.

8 – L’Amico che vorrei, se soffrissi di poca autostima:
Io ho tanti amici gay. Però loro non ostentano la propria sessualità, e non vanno in giro a fare capire sempre che gli piace il cazzo. Poi odiano il “gay pride” che anche loro considerano una pagliacciata, e non vogliono in matrimonio, perché sanno che non è la stessa cosa.

9 – Il SonoComeTuMiVuoi: Questo non è essere gay.

10 – Il Puntualizzatore: Premesso che sono eterosessuale […].

11 – La Moglie del Reverendo Lovejoy: Perché? Perché nessuno pensa ai bambini!

12 – Il Narcisista (o “Ce l’ho d’oro”, o ancora “Ce l’ho solo io”): Non ho nulla contro i gay, basta che stiano lontani dal mio culo!

13 – Il Maschilista freudiano: Lesbiche ci si diventa per le troppe delusioni con gli uomini.

14 – Il Principe Rosacarne che si propone per una buona causa: Sei lesbica solo perché non hai ancora conosciuto un vero Uomo.

15 – Il Fallocentrico:  Le lesbiche sono perennemente insoddisfatte sessualmente perché non possono penetrarsi, per questo usano i falli di gomma.

16 – Il Perbenista Cristiano: Siamo tutti figli di Dio, anche gli omosessuali. Gesù non ha mai detto niente contro di loro, per questo dobbiamo rispettarli. Però la famiglia è composta solo da un uomo e una donna.

17 – La Vittima: Basta con tutta questa eterofobia! Noi etero non facciamo l’Etero Pride, e non pretendiamo più diritti degli altri, siete degli intolleranti perché volete imporci il vostro modo di vivere!

Il problema poi è discuterci, con questa gente…