“Clic! Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica” di Alessandro dal Lago

Alessandro dal Lago è un sociologo della cultura genovese, autore fra l’altro de “La città e le ombre“, scritto con Emilio Quadrelli. Mi sono imbattuta per caso in un suo breve libro, di una sessantina di pagine, dedicato all’analisi del movimento 5 stelle, e in particolare della sua gestione attraverso il blog di Grillo, che lui descrive in questo modo: “un movimento reale subordinato a uno spazio virtuale dominato da un leader carismatico e da uno semi-visibile”. Vi consiglio caldamente la lettura di questo saggio breve ma acuto e ricco.
Il libro, del 2013, è scritto, nella prima parte, in forma di dialogo fra l’autore e un amico entusiasta nei confronti del movimento 5 stelle e delle speranze di rinnovamento che sembra portare; le argomentazioni del sociologo sono ricche di citazioni e rivelano la sua formazione, ma ciò non appesantisce la lettura, anzi genera tanti interessanti spunti di riflessione; nella seconda parte assume invece la forma del saggio vero e proprio.

La critica di dal Lago parte dal suo scetticismo nei confronti della “retorica millenarista” e palingenetica di Grillo e Casaleggio, secondo cui il loro movimento porterà alla vittoria del bene, semplificando, cioè al radicale rinnovamento della politica italiana attraverso l’eliminazione dei politici attuali, corrotti e disonesti o quantomeno inerti di fronte alla disonestà dei colleghi e incapaci di cambiare le cose, e della “dipendenza di militanti e rappresentanti dal duo costituito dal comico comiziante e dal guru elettronico”. Per dirla con le sue parole, “è la dimensione utopistica di Grillo che mi preoccupa perché è in tutto e per tutto totalitaria”.
Secondo dal Lago, il tratto più saliente dell’ascesa del M5S è “l’invenzione e il successo di un partito-sito, che considera il movimento l’emanazione del blog”, ed è dal blog che muove l’analisi. Dapprima si sofferma sul ruolo della pubblicità e sul fatto che i messaggi pubblicitari e quelli dei post, dei contenuti, si sovrappongano e confondano intenzionalmente nel creare un messaggio uniforme che riflette e al contempo definisce lo stile di vita dei simpatizzanti (che s’indignano per gli articoli, installano i pannelli fotovoltaici, comprano gli ebook dei libri di protesta…), in quella che dal Lago definisce una “meta-comunicazione” e che secondo lui è ciò che tiene insieme i simpatizzanti.

Il secondo capitolo, “Il mercato dell’indignazione”, si sofferma sul modo in cui i post del blog convogliano e fomentano l’indignazione verso la “casta”, concetto che crea una divisione morale, fra “cittadini” e “casta”, appunto, fra “noi” e “loro”, che diventa uno dei pilastri dell’identità di chi si riconosce nel M5S; sull’impatto della definizione, da parte degli intellettuali, del movimento come populismo; sul ruolo della magistratura, che nel pensiero grillino è “guardia e garanzia dell’opposizione tra indegni e indignati”; sui cambiamenti che l’entrata in scena di Grillo potrebbe apportare al sistema politico italiano.
Il terzo è dedicato invece alla “fusione di marketing e politica” che si ha nel movimento di Grillo, che non è solo “commercializzazione di idee politiche” ma anche, allo stesso tempo, “politicizzazione del marketing”, che esiste a causa dell’esistenza della triade “Casaleggio Associati-blog di Beppe Grillo-M5S”, un “complesso politico-aziendale” senza cui il movimento stesso, che dal Lago definisce come “una sorta di franchising sociale e politico” che offre “visibilità in cambio di legittimazione”, non esisterebbe.

Il quarto capitolo s’intitola “Eliminare le dissonanze” ed è centrato sul fatto che nel crogiuolo del blog “non esistono contraddizioni […] perché sono ricomposte in via trascendentale, a prescindere”: i commenti negativi sono lasciati, purché non diventino troppi, semplicemente perché nella grande massa dei commenti vanno perduti. Sono troppi per essere letti uno ad uno, chi li scrive si illude di partecipare, ma in realtà la sua voce individuale si perde nel vento. Tenendo insieme tutto e il contrario di tutto, si rende “impossibile ogni dialettica, e cioè fusione degli opposti in una sintesi superiore”, nota dal Lago. Un’altra espressione di ciò è la pretesa di Grillo e Casaleggio di andare oltre la distinzione fra destra e sinistra, che dal Lago critica sottolineando che “la polarizzazione delle culture politiche […] è soprattutto un modo di sintetizzare opzioni politiche contrapposte, ovvero immagini della società, strategie economiche, teorie della giustizia sostanziale”, ed è necessaria, mentre invece nel blog di Grillo tutto questo viene disinnescato, le varie visioni del mondo coesistono senza confliggere, non esiste coerenza e non esiste contraddizione, tutto viene rimpiazzato da “una contrapposizione bene/male che tende a neutralizzare ogni conflitto tra ‘punti di vista’ particolari”.

Il quinto capitolo è acutamente intitolato “Ognuno vale uno, ma due valgono per tutti” e si focalizza sull’illusione della libertà di parola, di fatto l’unica concessa al “cittadino” nell’ipotetica democrazia digitale auspicata da Casaleggio, e sullo squilibrio di potere fra chi ha a disposizione solo parole scritte nei commenti e un nickname e chi invece ha la possibilità di metterci la faccia, di parlare ai microfoni, di apparire in televisione. Questo squilibrio da solo vanifica l’idea che “uno vale uno”. Inoltre, è in questo capitolo che dal Lago analizza il sistema politico-aziendale di cui abbiamo parlato sopra e le sue implicazioni.

Il sesto capitolo si intitola “Questa non è una leadership” analizza i libri scritti da Grillo e Casaleggio, “testi di agitazione e di propaganda politica”, servendosi di essi anche come “contrappunto a un’analisi delle loro idee politiche […], un vero patchwork ideologico-politico per la cui decifrazione, e soprattutto interpretazione, è indispensabile rifarsi ai libri”; si sofferma poi anche sul famoso “non Statuto” e sul codice di comportamento che i parlamentari hanno dovuto sottoscrivere.
Il settimo capitolo è “Il sapere dei non leader” ed è centrato sulle “castronerie” (dice dal Lago) e le contraddizioni del duo Grillo-Casaleggio, cui si aggiunge l’ospite speciale Dario Fo, autodefinitosi “Sapiente Enciclopedico” (sic!). In questo capitolo mi sono trovata a sorridere divertita più che ad annotare mentalmente riflessioni interessanti, e immagino che anche l’autore si sia divertito a scovare e confutare le castronerie.

L’ottavo capitolo, “Idee chiare sull’immigrazione” è ovviamente un’analisi delle idee del trio dei non leader sul tema, su cui Grillo ha posizioni vicine a quelle della Lega. Le idee di Grillo vengono confrontate con esternazioni precedenti del comico, in cui il suo “dilettantismo irresponsabile” sulla questione sfuma decisamente nella xenofobia.
Il nono capitolo è “Che giustizia sia fatta!”; sul tema le opinioni del trio dei non leader sono definite da dal Lago “sia di destra, sia di sinistra e cioè di entrambe le posizioni e di nessuna delle due”, anche se “prevale l’idea di una giustizia vendicativa”. Nel corso del capitolo, dal Lago riporta un passo in cui Fo si lancia nella credibilissima storia di una karateka che, sventato uno stupro di gruppo in un parco, è costretta a portare uno degli aggressori, malconcio per i colpi subiti, all’ospedale, a fingere che si tratti del suo ragazzo intervenuto per difenderla e infine ad aiutare il medico a medicargli i testicoli.
Il decimo e ultimo capitolo, “Il paradiso prossimo venturo”, è dedicato alle idee di Grillo e Casaleggio sull’ipotetico futuro in cui il M5S avrà vinto, avrà realizzato la sua palingenesi e si sarà sciolto. Un mondo inquietante, in cui quello che facciamo abitualmente al computer avrà inglobato ogni aspetto della nostra vita, rendendo superfluo ogni suo equivalente nella vita reale.

Seguono le conclusioni, che riprendono il dialogo iniziale fra l’autore e l’amico, il quale dialogo verte principalmente sullo stile comunicativo di Grillo e Casaleggio, che dal Lago riconduce ad una trasposizione on line dei monologhi di Grillo, e poi sui rischi che il modello creato dal M5S presenta, che rimarranno anche quando il movimento si sgretolerà.

Una definizione sociologica di ideologia, fra le tante possibili

“Ideologia” è una di quelle parole che le persone usano a sproposito. E ogni volta che succede vorrei prendere a pugni lo schermo. Invece opterò per una soluzione più costruttiva, quella di scrivere un post che spieghi cosa può essere, dal punto di vista sociologico, un’ideologia, in varie interpretazioni, e quali sono stati gli usi di questo concetto analitico nelle sue differenti declinazioni.

Partiamo dalla definizione (in questo caso, tratta dal libro di testo Sociologia dei processi culturali di Loredana Sciolla): “I criteri che consentono l’individuazione di un’ideologia sono: a) una visione del mondo con un alto grado di coerenza interna; b) prodotto esplicitamente da gruppi di intellettuali, ma diffuso a più ampi strati della popolazione; c) che ha funzione di legittimare o giustificare i rapporti di potere presenti in un gruppo sociale o in un’intera società; d) a partire non da fonti ultraterrene, ma richiamandosi all’autorità scientifica (per quanto questo richiamo possa essere solo di facciata)”.

La riflessione sul concetto di ideologia nasce nel XIX secolo, quando le religioni cristiane entrano in competizione con altre fonti di legittimazione che pretendono di fondare la vita sociale e collettiva su sistemi di idee e valori secolari, secondo lo storico Arnold Toynbee, ma il termine ha origine anteriore: nasce verso la fine del XVIII secolo per mano di Antoine Destutt de Tracy, filosofo illuminista, che si propone di fondare una “scienza delle idee”, o meglio della loro origine nelle impressioni sensoriali.
L’origine invece della definizione di senso comune dell’ideologia come “forma distorta del pensiero” risale al concetto di idola di Francesco Bacone, secondo cui esistono quattro specie di idola che distorcono il pensiero umano e ostacolano il raggiungimento della verità, gli idola tribus, basati sulla natura umana, gli idola specus, legati ai singoli individui, gli idola fori, che derivano dal carattere sociale dell’esistenza umana, e infine gli idola theatri, che sorgono dalle idee e dalle opinioni tradizionali (dal senso comune, diremmo oggi).
Secondo Bacone, il pregiudizio nasce da un complesso di impulsi irrazionali, condizionati dagli interessi di dominio dei gruppi sociali dotati di maggiore potere, fra cui il clero, che diffondeva superstizioni per tenere le masse religiose nella paura. Il pregiudizio era quindi una manipolazione consapevole e l’ideologia veniva imposta attraverso l’inganno: per distruggerla sarebbe bastato squarciare il velo dell’ignoranza, ed essa sarebbe crollata da sola.
Si tratta di una spiegazione molto illuminista, ma anche riduttiva: come puntualizza Sciolla “vengono sottovalutate le reali condizioni sociali e di vita che contribuiscono a rendere pregiudizi e idee errate ‘credibili’ da parte delle persone”, anche considerato che “il miglior modo per persuadere gli altri è credere in quello di cui si vuole convincere”.

Un’altra tappa fondamentale nella definizione del concetto di ideologia è quella rappresentata da Karl Marx. Il filosofo tedesco, nell’opera L’ideologia tedesca (1845) concepisce l’ideologia come un capovolgimento della realtà per cui le idee sono considerate autonome e non un’emanazione diretta del loro comportamento materiale, capovolgimento che deriva dalla divisione del lavoro fra intellettuale e materiale, che ha creato una categoria di individui impegnati solo nella produzione di idee, e che per questo non sono più in grado di scorgerne l’origine. Invece ne Il capitale (1867) Marx si sofferma su “un diverso modo di operare dell’ideologia, che nel sistema economico capitalistico tratta i reali rapporti tra persone come se fossero rapporti tra cose, oggettivizzandoli e naturalizzandoli”, per dirla con le parole di Sciolla. In entrambi i casi, per Marx l’ideologia è una “rappresentazione falsa che si produce senza che chi la produce abbia coscienza della sua falsità”, prodotta direttamente da fattori storici e sociali, che costituisce “una condizione per il funzionamento e la riproduzione del sistema di classe dominante” e opera anche attraverso “l’universalizzazione di interessi particolari, ossia quando gli interessi di un gruppo vengono presentati come interessi di tutti”.

Vilfredo Pareto, nel suo Trattato di sociologia generale del 1916, considera l’ideologia come “un insieme di idee e di valori politici, spesso camuffati da teorie scientifiche, ma che in realtà nascondo interessi e motivazioni diverse”, come spiega Loredana Sciolla, e come “razionalizzazioni ‘a posteriori'”, come una “‘vernice logica’ che gli individui applicano a motivazioni sottostanti senza averne coscienza”. Queste motivazioni sono di natura psichica, sono impulsi e istinti. Le ideologie possono essere analizzate sotto l’aspetto oggettivo, cioè il nesso logico o meno con cui i dati vengono collegati, sotto l’aspetto soggettivo, cioè secondo le ragioni che gli individui hanno per accoglierle (la loro forza persuasiva), e secondo l’utilità sociale che possono avere.

Infine, una svolta nella concezione in sociologia di “ideologia” avviene con l’opera Ideologia e utopia (1929) di Karl Mannheim. Il sociologo tedesco distingue fra “concezione ‘particolare’ dell’ideologia, intesa come semplice distorsione dovuta a interessi particolari” e “concezione ‘totale’ dell’ideologia che emerge quando spostiamo l’attenzione dal livello psicologico a quello della struttura mentale, dello stile di pensiero, del modo di affrontare e di interpretare la realtà di un’intera epoca storica o gruppo sociale”, quando “cerchiamo di rendere conto di una più complessiva concezione del mondo (Weltanschauung) che deve essere ricostruita come ‘unità di senso’e interpretata come prodotto di una condizione di vita collettiva”, spiega Sciolla.
Mannheim sostiene la necessità di un metodo interpretativo di studio dei prodotti culturali, che “implica la loro collocazione entro una totalità strutturata di cui essi costituiscono singole parti”. Diventa fondamentale capire come una Weltanschauung può essere distillata dalle varie “oggettivazioni” con cui si presenta in ogni singola epoca storica, e per farlo Mannheim individua tre ‘strati di significato’: il significato obiettivo, che riguarda l’identificazione di un’azione, il significato espressivo, cioè l’intenzione soggettiva dell’attore sociale, e il significato documentario, cioè il significato totale che deriva dal connettere i singoli significati tra loro e dal metterli in relazione con il principio dominante.
Abbiamo così la relativizzazione del concetto di ideologia, essendo che ogni pensiero condizionato storicamente e socialmente è ideologico, e per questo il termine perde la sua connotazione negativa, diventando sinonimo di “insieme di credenze e valori di una società”. La concezione neutrale dell’ideologia è stata poi sostenuta da Edward Shils (in The concept and function of ideology, 1968), che considera il termine equiparabile a “visione del mondo” e distingue le ideologie solo in base al grado di esplicitazione con cui sono formulate e in base alla loro rigidità, chiusura e resistenza all’innovazione.
Il grande antropologo Clifford Geertz, in Interpretazioni di culture (1973), considera l’ideologia come un”azione simbolica’ basata sulla metafora, con la funzione di produrre un effetto di mobilitazione.
Louis Althusser (in Leggere il Capitale, 1968), a sua volta, sotto il termine di ideologia raccoglie “tutte le idee, dalle teorie scientifiche alle dottrine religiose, alle filosofie, alle norme morali”, facendolo divenire quindi un sinonimo di cultura.

La conclusione è che nella storia del pensiero sociologico gli sforzi di definire il concetto di “ideologia” non hanno portato a risultati univoci, ma anzi ad una notevole differenziazione di significati. Personalmente, trovo che la definizione di Loredana Sciolla sia soddisfacentemente chiara e priva di ambiguità. Tuttavia, il richiamo della concezione neutrale del termine è forte, specie considerato quanto dichiarare una qualsiasi idea con cui si dissente “ideologia”, come se questo bastasse automaticamente a squalificarla, sia un atteggiamento diffuso.
Il dibattito resta aperto, in attesa di un contributo risolutivo che trovi l’accordo della comunità dei sociologi (cosa praticamente impossibile, ma non si sa mai).

#mediawelike: personaggi femminili di colore da ricordare

Un po’ di tempo fa avevo scritto un post dedicato ai personaggi femminili da ricordare, con una piccola lista delle mie eroine, da film e anime (avrei incluso serie tv e videogames, ma non volevo fare una semplice lista, quanto descrivere chi fossero quei personaggi e perché significassero qualcosa per me). La rappresentazione conta, perché riflette e a sua volta influenza l’immaginario collettivo, in un processo continuo di interscambio reciproco. Il fatto che un’idea sia presente in un prodotto culturale dimostra, di solito (i casi in cui uno sceneggiatore o una sceneggiatrice inventano un’idea completamente nuova e originale, che non ha rimandi precedenti, sono rari al giorno d’oggi), che quell’idea è diffusa nella società, nell’ambiente culturale più ampio. L’idea viene poi rilanciata di nuovo nell’ambiente dal prodotto culturale stesso. Ricostruendo il cammino della diffusione di quell’idea, anche il prodotto culturale stesso ne costituisce una tappa.
L’idea che anche le donne possano essere forti, autonome, intelligenti, e non semplici elementi di contorno in relazione ad un uomo, è ormai accettata. Anche nei film dove il protagonista è un uomo ci si sforza di rappresentare in modo positivo le donne (anche perché, diciamolo, un personaggio complesso e sfaccettato è sempre più interessante di uno stereotipato, e ci si può identificare meglio).

Una ragazza che stimo molto, l’amministratrice della pagina facebook “Contro gli standard di bellezza”, ha pubblicato quest’album, Donne di colore nei media, in cui raccoglie esempi più che positivi, ottimi, di personaggi femminili di colore ben caratterizzati. Mi ha anche dato il permesso, cosa per cui la ringrazio molto, di riportare qui uno dei suoi testi per illustrare l’argomento.

Michonne

Il personaggio che ho scelto è Michonne, di The Walking Dead, riguardo a cui lei scrive: “Premetto che parlerò unicamente della Michonne della serie televisiva, poiché non ho finito di leggere il comic e in ogni caso trovo che la Michonne cartacea sia estremamente problematica dal punto di vista del maschilismo.
In una serie nota per la pessima scrittura dei personaggi femminili, sono stata sorpresa di scoprire che l’unico tra questi che invece è stato ben caratterizzato è l’unica donna nera del cast (più avanti si aggiunge un’altra ragazza di colore e gli ultimi sviluppi hanno portato nel gruppo anche una donna latina, ma per molto tempo Michonne è stata l’unica donna di colore tra i sopravvissuti).
Quando appare, di lei non si sa nulla, e si continuerà a non sapere nulla per molto tempo. Ciò che sappiamo è che Michonne è un’abilissima combattente (uccide gli zombie a colpi di katana), esperta nell’arte della sopravvivenza (la vediamo sopravvivere da sola in un’apocalisse zombie armata solo di spade e di due walker al guinzaglio, che lei stessa ha sottomesso) e tanto disposta ad aiutare quanto è poco disposta ad aprirsi.
Se Michonne può sembrare, da un lato, una mera trasposizione al femminile dell’eroe burbero, un’analisi più attenta rivela che l’estrema riservatezza di Michonne è il risultato di una serie di traumi che, oltre a renderla diffidente, l’hanno segnata al punto di non essere in grado di parlarne. Dovremo aspettare moltissimo prima che finalmente Michonne si apra: lo farà con Carl, un personaggio con cui, piano piano, nel corso della serie instaurerà un rapporto quasi materno, che contrasta con la scarsa fiducia e attenzione generalmente accordata da Michonne agli altri esseri umani. Con lui, e con l’amica Andrea, Michonne perde la sua abituale rigidità e si concede anche attimi di dolcezza e tranquillità. Carl ci permette di vederla nel suo lato più giocoso e nella sua profonda empatia, caratteristiche che, prima dello sterminio della sua famiglia, in lei erano evidenti e preponderanti.
Questo non significa che la maternità perduta, e quella in un certo senso recuperata tramite Carl, siano le uniche caratteristiche di questo personaggio: le sue storyline generalmente riguardano l’incapacità degli altri personaggi di accettarla nel gruppo, proprio a causa del suo rifiuto di aprirsi e rivelare informazioni su di sé, il che la rende un’alleata ma al contempo una sospetta. Col tempo riuscirà a dimostrare, con i fatti e non con le parole, la sua lealtà al gruppo.
Particolarmente degno di nota il fatto che tra lei e Andrea si instauri un rapporto di profonda amicizia, in una serie spesso maschilista da cui era difficile aspettarsi ciò che serie molto più raffinate non riescono a concepire. Naturalmente tra le due ci sono dei contrasti, com’è normale in qualsiasi amicizia, ma questi contrasti, nonostante finiscano per portarle su strade diverse, non intaccheranno mai il legame che si è creato tra le due.
In tutto questo, Michonne spicca sugli altri personaggi femminili della serie (rappresentati come inetti, fastidiosi, imprudenti, misogini e negativi, al punto che verranno percepiti come tali anche nei momenti in cui non lo sono) come l’eroina guerriera che se la cava sempre grazie alle sue forze. Naturalmente riceve l’aiuto dei personaggi maschili, che aiuterà a sua volta a più riprese, ma l’aiuto è sempre reciproco e non sarà mai una damigella in pericolo; nemmeno quando verrà presa prigioniera, poiché si libererà da sola durante la missione di salvataggio tesa a recuperare lei ed Hershel.
Non ho riscontrato nulla in lei, nemmeno nella Michonne pre-apocalisse, che riconduca a stereotipi razzisti sulle persone di colore; la questione dell’etnia non viene mai neppure menzionata. In una serie maschilista e razzista, dove i personaggi di colore vengono falciati senza pietà uno dopo l’altro, è stupefacente rendersi conto che l’unica a non ricevere questo trattamento è proprio la donna di colore, personaggio tra l’altro piuttosto ben scritto in una galleria umana che spesso si dimostra piatta, stereotipata o addirittura insignificante (caratteristiche che vanno intensificandosi a mano a mano che ci si allontana dalla categoria dell’uomo bianco).”

Cosa ne pensate? Vi vengono in mente altre donne di colore notevoli, oltre a quelle nell’album di “Contro gli standard di bellezza”? Io citerei Zoe Washburne (interpretata da Gina Torres) in Firefly di Joss Whedon (ma Firefly l’avranno vista in 15), ma qualsiasi suggerimento e contributo al discorso è benvenuto.