Disciplina Domestica Cristiana: violenza e manipolazione.

La Disciplina Domestica Cristiana è uno stile di vita nato negli Stati Uniti, fondato sull’idea di una famiglia patriarcale sul modello biblico, in cui il marito è capofamiglia e ha diritto a far rispettare la propria autorità nei confronti della moglie anche ricorrendo a punizioni corporali. L’assunto che legittima questa pratica dal punto di vista religioso è che Dio, e gli uomini da lui eletti e quindi rivestiti di autorità “divina”, hanno fatto ricorso a punizioni anche violente per guidare la comunità ebraica sulla retta via, e che l’autorità senza il sostegno dei castighi non è reale, ma solo apparente. I castighi hanno lo scopo di prevenire comportamenti “sbagliati” o “immorali” da parte della moglie e di impedire che lei o altri possano essere danneggiati da eventuali peccati: si tratta quindi di punizioni preventive e sistematiche.

L’autorità del marito, che viene definita come “God mirroring” e “practical godliness”, deriva da una catena di potere che parte direttamente da Dio, per cui disobbedire al capofamiglia equivale a disobbedire a Dio, secondo questo stile di vita. Poiché Gesù Cristo è colui che ci osserva e giudica, le donne devono sottomettersi al marito, sono destinate ad ubbidirgli.

Questa pratica nasce dall’interpretazione molto letterale e rigida che diverse comunità e sette cristiane danno della Bibbia, per cui essa va accolta integralmente e applicata testualmente per essere dei veri cristiani: mettere in discussione una parte della Bibbia significa negarne il valore tout court, e dal momento che la Bibbia è un testo ispirato direttamente da Dio, in essa sono contenute le norme per vivere adempiendo al suo volere, sottomettendosi a lui.

Secondo gli autori del’articolo, questo stile di vita cerca di “tornare agli standard che Dio ha predisposto”, in opposizione alla cultura contemporanea: il matrimonio secondo deve quindi rispettare lo schema della tradizionale famiglia patriarcale, in cui l’uomo rappresenta l’autorità e la donna deve sottomettersi a lui, accettando con amore e gioia questo ruolo per essere una perfetta moglie cristiana. Non manca la polemica contro il femminismo, colpevole di aver “equiparato la disciplina biblica all’abuso”, cioè alla violenza domestica, e di aver lasciato le donne prive della saggezza di Dio che avrebbe permesso loro di sbocciare come “donne di Dio”. La quale saggezza impone al marito di usare la sua autorità, e quindi ogni mezzo che questa autorità comporta, per tenerla al suo posto ed insegnarle ad essere una brava donna. Secondo questi illuminati cristiani, la disciplina correttiva e preventiva non rappresenta un abuso, o almeno questo è quello che le mogli devono imparare a pensare: devono vederla come un male necessario per conseguire il fine di essere cristiane migliori e per costruire famiglie dove “le lotte di potere, le insicurezze della moglie, la passività del marito e le manipolazioni siano sostituite dall’amore e dal rispetto”. Che amara ironia.

Un’ulteriore sezione dello stesso articolo è dedicata al definire, appellandosi a vari passi della Bibbia, cosa sia la sottomissione e perché un modello familiare in cui la donna non è sottoposta al marito sia assolutamente incompatibile con la visione cristiana del matrimonio e sia portatore di corruzione dei costumi. La sezione successiva nega che le punizioni corporali, o disciplina fisica, rappresentino un abuso, dal momento che “lasciare che sia la società a definire cosa è abuso è pericoloso e poco saggio”: il bravo cristiano deve invece aderire acriticamente alla visione di una cultura arretrata e patriarcale risalente a millenni orsono, dal momento che è in essa che si rivela la visione di nientemeno che Dio stesso al riguardo. E Dio la pensa così: i castighi corporali sono raccomandabili e rappresentano una cosa saggia: il proverbio non recita forse “Colui che risparmia il randello, odia suo figlio. Ma colui che lo ama, lo disciplina con diligenza” e “Il randello è per colui che difetta di comprensione”?

L’articolo ci svela implicitamente i reali perni su cui poggia la filosofia della Disciplina Domestica Cristiana: nel passo in cui dice “Authority implies a power to influence and motivate those under his [the husband’s] authority e in quello in cui sottolinea che the wife must desire to be obedient to God and the Bible before training begins…in altre parole, il marito ha il diritto, legittimato dal suo ruolo di capofamiglia, di persuadere e convincere la moglie a seguire questo stile di vita, condizione necessaria perché il suo addestramento possa iniziare. Un’altra frase rivelatrice della vera natura di questa pratica è la seguente: “a wife who internalizes submission to her husband over time will also become more submissive to God.“: la donna viene manipolata, attraverso l’idea che la sottomissione sia ciò che Dio si aspetta ed esige da lei, al punto da assimilare e interiorizzare completamente il suo ruolo di inferiorità, rinunciando così al proprio spirito critico, alla propria autonomia di giudizio e, in definitiva, accettando con gioia e rassegnazione la sua gabbia. Sottomissione totale e ‘spontanea’. Ecco che cosa ci si aspetta da una donna nella Disciplina Domestica Cristiana. La forza di volontà, la paura, tutto ciò che potrebbe allontanare la donna dallo stile di vita a cui è tenuta a conformarsi, o addirittura a metterlo in discussione, sono viste come pericolose deviazioni dal sentiero dell’obbedienza a Dio.

Il concetto del dolore come strumento di correzione e redenzione dai cattivi costumi, dalla disobbedienza e dal peccato è molto enfatizzato nel testo. Il dolore non è parte di un gioco di potere basato sul consenso, il rispetto e la fiducia reciproci come nel BDSM: esso invece è uno strumento per “correggere” la condotta della moglie, per obbligarla a rispettare la volontà del capofamiglia e per indurla a rinunciare ad ogni proposito di ribellione. Serve per piegare la sua volontà e farle accettare passivamente il suo ruolo. Il modello di vita coniugale esaltato dai sostenitori della Disciplina Domestica Cristiana ripropone lo stesso schema delle relazioni di abuso, dove un partner esercita violenza psicologica e fisica sull’altro: manipolare la donna per convincerla che la disciplina è una cosa buona, è per il suo bene, è la volontà di Dio; distruggere ogni resistenza attraverso le punizioni corporali; farla sentire amata ed accettata nel momento in cui si piega volontariamente alla condizione di sottomissione a cui è costretta. L’alternanza di momenti gratificanti di affetto e gentilezza e momenti umilianti di freddezza e punizioni tiene la donna in uno stato di dipendenza psicologica. Inoltre, ho ragione di credere che se tutta la comunità intorno a quella donna segue la Disciplina Domestica Cristiana, nel momento in cui lei rifiuterà di conformarsi verrà isolata, emarginata e condannata alla disapprovazione sociale, il che accrescerà la sua vulnerabilità e fiaccherà ulteriormente la sua resistenza. Il dolore non è altro che un modo di dimostrare amore: non è una storia già sentita?

 

In the Booth with Ruth – Jody Williams, Founder of Sex Workers Anonymous (formerly Prostitutes Anonymous) and Trafficking and Prostitution Services

Solo una testimonianza.

Ruth Jacobs

Jody Williams

How did you become involved working with victims of sex trafficking and prostitution?

I’ll start back when it all started – with me in the sex industry. I say ‘sex industry’ because I was involved not just in prostitution. I was operating as a prostitute, as a dominatrix, in the phone sex industry, pornography, stripping, live sex shows, swinging, sex clubs, and madaming. I had been brought into this by a generational family of pimps who had their other family members and associates all across the United States in many different areas of the sex industry.

I saw firsthand how these illegal businesses would intertwine with legal businesses and so-called legal businessmen. I know how they would bring in medical doctors who would give the women birth control, illegal abortions, treat their STDs – all off the record in exchange for a trade of services between him and the ‘girls’…

View original post 1.489 altre parole

L’identità maschile nella cultura patriarcale

Scrivo questo post, prendendo spunto da un articolo scritto da Wu Ming 1 su Lipperatura di Loredana Lipperini, per aprire una discussione sul tema di come l’identità maschile si percepisce all’interno della cultura patriarcale, di quali condizionamenti siano all’opera su di essa, e di come gli uomini possano decostruirli e trovare un proprio spazio di autonomia ed autodeterminazione. Non ho la pretesa di esaurire l’argomento, e neppure quella di dare spiegazioni. Il mio scopo vuole essere quello di delineare i punti di partenza per una riflessione che spero sia arricchita da numerosi interventi: per questo raccoglierò qui varie considerazioni su diversi aspetti del crescere e vivere come uomini in questo tipo di società, cercando di fare un confronto con cosa significa e comporta per una donna viverci.

Essere un uomo in una società che affonda le sue radici in una cultura patriarcale comporta, innanzitutto, l’essere circondati da privilegi che appaiono come la norma, al punto che spesso per gli uomini risulta difficile rendersi conto che quei privilegi sono permessi da discriminazioni nei confronti di altri. Altri che restano invisibili. Un po’ come se sotto la strada spianata per l’uomo eterosessuale fossero sepolte le donne, gli omosessuali e gli immigrati che sono stati messi da parte per costruire quella strada. Per un uomo è molto più difficile che per una donna rendersi conto del sessismo che permea la nostra società; per un uomo è anche molto più difficile ribellarsi al ruolo che la società predispone per lui, poiché questo ruolo solitamente non implica un conflitto tra l’identità personale (individuo) e l’identità di genere (donna-uomo), e quindi per la maggioranza degli uomini non si presenta mai la necessità, l’urgenza di ribellarsi. Mi spiego meglio: i ruoli verso cui la società spinge le donne sono molto restrittivi nei confronti dell’individualità, molto limitanti, poiché ad una bambina-ragazza-donna è richiesto di corrispondere alle aspettative che tutti si sentono in diritto di avere nei suoi confronti. Ogni “deviazione” dal sentiero delle aspettative è punita con uno stigma sociale.

Per un uomo, dicevo, questo non avviene. Gli uomini sono educati a percepirsi come soggetti, quindi non sentono mai, o molto raramente, su di sé lo sguardo giudicante e oggettificante cui molte donne sono sottoposte ogni giorno. I ragazzi che osservano le compagne, classificandole a seconda dell’attrattiva sessuale; gli uomini che fischiano per le strade alle donne che camminano e suonano loro il clacson, trattandole come pezzi di carne in esposizione per loro; le ragazze che sussurrano bisbiglii di disapprovazione nei confronti di altre ragazze, perché quei leggings fanno sembrare grasse le cosce, perché gli è apparso un brufolo sul naso, perché guarda com’è sciatta, perché quel maglione è veramente orribile. Queste malignità si riconducono tutte ad una radice comune: le donne sono osservate e si osservano sempre secondo il parametro della bellezza, che diventa una sorta di “condizione necessaria” per poter esistere,  un valore, un merito, qualcosa che in positivo o in negativo condiziona la vita di ognuna di noi.

L’identità degli uomini si costruisce in buona parte per opposizione a quella delle donne, si “staglia” e si fa forte sopra la debolezza, la civetteria, la dolcezza del femminile. L’identità femminile, in modo complementare, si costruisce in buona parte su questi atteggiamenti, che vengono inculcati alle bambine da quando vengono al mondo e che acquistano senso nella relazione con l’uomo, poiché non ne hanno uno autonomo.  (Adrianaaaa su Lipperatura)

I condizionamenti inculcati ai bambini sono quindi speculari a quelli che subiscono le bambine. E a fare da contraltare all’opposizione di cui parla Adrianaaa c’è l’idea che i due sessi, invece che essere uguali nella diversità, siano complementari. Ora, anche un angolo di 89° e un angolo di 1° grado sono complementari, la complementarità può voler dire tutto e niente se non accompagnata da basi strutturali forti come quella di equità, che nasce dall’essere prima individui unici e irripetibili e solo in secondo luogo uomini e donne.

Prima ho parlato del fatto che gli uomini si percepiscono come soggetti, anziché assorbire la prospettiva giudicante e oggettivante di uno sguardo esterno sempre puntato su di loro: questo deriva proprio dal fatto che le bambine sono educate a comportarsi in un certo modo per essere lodate, ammirate, apprezzate. Il potere di decidere se sei giusto o sei sbagliato, che questo modello educativo conferisce agli uomini (e alle donne che diventano “vicarie” del loro sguardo) crea in modo “automatico” una gerarchia di potere, un potere di cui i ragazzi si servono in modo involontario, senza neppure accorgersi di stare esercitando una forma di “dominio”.

Per queste ed altre ragioni, un uomo nella società di oggi dispone di più potere rispetto ad una donna, in generale. Questa disparità di forza, anche se non esercitata direttamente, comporta un vantaggio per ogni uomo. Ecco perché la condizione della donna nella nostra società è un problema sociale che riguarda tutti, e che non può essere risolto solo dalle donne: ecco perché le nostre analisi, il nostro impegno, non bastano più.

Sempre su Lipperatura un commentatore, Luca, spiega la questione con una semplicità illuminante:

La questione della colpa collettiva è difficile, spinosa. Dolorosa.
Tuttavia, non può essere derubricata con un’alzata di spalle. Con un “io non c’entro, io non stupro, io non abuso.”
Un sudafricano bianco liberale e di larghe vedute non poteva chiamarsi fuori dall’apartheid e dal regime con uno sbrigativo “io non discrimino, non torturo, non uccido.” Il contesto lo interrogava per via diretta, sempre, molto aldilà dei pur importanti comportamenti personali. Perché quel contesto forniva circostanze, opportunità, vantaggi, che comunque eccedevano la semplice sfera personale per avere ricadute e ripercussioni sull’intero corpo sociale.
Un sudafricano bianco liberale e di larghe vedute in ogni caso si giovava di una quota di privilegio derivata direttamente da un abuso, da uno stupro, da un omicidio.
I tedeschi, settant’anni dopo, sono ancora lì che ci ragionano sopra.
Un motivo dovrà pur esserci. (Luca)

Sono convinta perciò che sia necessario che gli uomini si facciano domande, cerchino di capire come possono contribuire a cambiare le cose, come potrebbe essere ridefinito il loro ruolo nella società per evitare appunto di ricorrere a quelle “quote di privilegio”, come si può favorire un’educazione alla parità e al rispetto (magari a partire dagli stereotipi relativi al concetto di virilità). Il femminismo è un movimento inclusivo, non segregante: è un movimento che parte dalla riflessione interiore del singolo individuo per arrivare ad un’analisi della società all’interno della quale l’individuo agisce e pensa, e dalla quale comunque è condizionato (perché nessun uomo è un’isola). Ora vorrei che fossero gli uomini a raccogliere il testimone e interrogarsi sulle tematiche che ho cercato di portare alla luce in questo post, e su tutto ciò che riguarda “il loro posto” in questa società.

10 Women Who Invented and Innovated in Tech

Mothers of Technology: 10 Women Who Invented and Innovated in Tech @BizTechMagazine. Questo articolo raccoglie le storie di dieci donne che hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo delle odierne tecnologie informatiche, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, facendo la loro parte nel costruire la rete Internet di cui il mio blog fa parte e nel rendere possibili i computer come quello da cui scrivo. Donne che hanno lavorato con codici di programmazione e display, che hanno sviluppato videogiochi e servizi che usiamo tutti i giorni, che si sono fatte valere nel mondo dell’informatica, considerato un ambito tipicamente maschile. Il loro ruolo merita di essere riconosciuto, nella speranza che possano rappresentare una fonte di ispirazione e un modello di empowerment per bambine e ragazze che sentono di avere una passione per la tecnologia: le loro conquiste possano ricordare ad ognuna che non c’è limite alle capacità di una donna, e che noi possiamo fare qualunque cosa, anche entrare nelle “fortezze” che sembrano inviolabili. Perché è il talento che conta, non il genere.