Le donne e la guerra: un fondamentale fattore di emancipazione

All’inizio del Novecento, mentre si sviluppava la società di massa, le donne rivendicarono il loro diritto ad essere cittadine attivamente partecipi alla vita politica attraverso i movimenti suffragisti; in particolare nel Regno Unito la Women’s Social and Political Union, fondata nel 1902 da Emmeline Pankhurst, riuscì a imporsi nel dibattito politico. Le militanti per il diritto di voto, chiamate suffragette, si batterono per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema con marce sul Parlamento, scioperi della fame, azioni di vandalismo contro le vetrine dei negozi. Una di loro, Emily Davison, morì travolta dal cavallo del re dopo essersi gettata in mezzo alla pista, cercando di issare la bandiera del WSPU sul cavallo stesso. Queste azioni spettacolari erano dovute al fatto che le organizzazioni politiche femminili erano illegali, e la disobbedienza civile era l’unica strada percorribile per far sentire la propria voce.

Learn to make munitions, women

Tuttavia, il fattore decisivo di svolta fu lo scoppio della prima guerra mondiale. L’invio massiccio di uomini al fronte aprì alle donne il mondo del lavoro, abbattendo la barriera fra i lavori tradizionalmente riservati alle donne e quelli tradizionalmente riservati agli uomini; inoltre, esse iniziarono a lavorare nelle fabbriche di armi, dove i salari erano spesso il doppio rispetto alle fabbriche “civili”. Ciò rese le donne più consapevoli delle proprie capacità, in quanto dimostrarono la loro attitudine fisica e mentale a svolgere compiti “maschili”, contro gli stereotipi che precludevano loro queste mansioni, e diede loro maggiori spazi di autonomia, riflessi anche in un cambiamento della moda, con l’abbandono dei vestiti di foggia ottocentesca e dei corpetti in favore di abiti più corti e leggeri (artefice di questo processo è soprattutto Coco Chanel). Il riconoscimento dell’emancipazione femminile e dell’importanza del ruolo svolto dalle donne nel conflitto fu la concessione del diritto di voto, che avvenne nel 1918 in Gran Bretagna, nel 1919 in Germania e nel 1920 negli USA.

Army Women 6

Il ruolo delle donne nella seconda guerra mondiale fu ancora più significativo. Quasi 350.000 donne prestarono servizio nelle forze armate statunitensi, svolgendo sia compiti di amministrazione, sia di logistica, sia lavorando come meccanici, operatori radio, addestratrici di soldati uomini, infermiere. (dati tratti da The National WWII Museum | Women in WWII.) Peggy Carter, il soldato donna di cui si era innamorato Capitan America, non è solo un personaggio di fantasia, ma l’emblema dell’apertura di un nuovo ruolo alle donne.

In Italia, le donne svolsero un ruolo significativo nella Resistenza partigiana contro i nazisti, combattendo sul campo al fianco degli uomini, agendo come informatrici, svolgendo le fondamentali operazioni di collegamento fra i vari nuclei di partigiani (trasportando armi ed esplosivo, messaggi e le disposizioni del Comitato di liberazione nazionale ai singoli gruppi), nascondendo e curando i feriti, organizzando alloggi clandestini e luoghi di incontro per i capi militari e politici del movimento partigiano, e infine redigendo le pubblicazioni della stampa clandestina. Tra di loro, Iris VersariElettra PollastriniGisella Floreanini e tante altre donne della Liberazione, ricordate dal blog Bambole Spettinate&Diavole del Focolare. Le partigiane hanno collaborato con gli uomini in una situazione in cui la necessità ha scardinato i tradizionali ruoli di genere, creando una situazione di concreta parità e condivisione di ideali, responsabilità e timori. Nel frangente della Resistenza, donne e uomini sono stati realmente alleati, realmente compagni di lotta, e questo ha favorito l’inserimento di donne rispettate per il valore dimostrato nella lotta all’interno delle istituzioni politiche: non è un caso che il primo ministro donna della storia dell’Italia repubblicana provenisse dall’ambiente partigiano.

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Oggi le donne fanno parte delle forze armate di molti Stati e possono ricoprire ruoli di combattimento attivo in  combattimento attivo negli eserciti di Australia, Nuova Zelanda, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Norvegia, Israele, Serbia, Svezia, Svizzera e anche qui in Italia, dove l’ingresso delle donne nelle forze armate è stato sancito nel 1999.

Come sottolinea il documento “Le donne nelle forze armate” (disponibile in .pdf su Internet, cercatelo), redatto dal Ministero della Difesa italiano, l’inserimento delle donne nei vari reparti dell’esercito italiano non ha comportato alcun problema, anzi si nota una perfetta sintonia fra soldati uomini e soldati donne. Inoltre, “nell’Esercito la presenza femminile, con incarichi assegnati senza alcuna limitazione di sorta, ha rappresentato in talune circostanze – operazioni in ambienti culturali diversi da quelli occidentali quali l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano – un elemento indispensabile per lo svolgimento di “attività” verso la popolazione femminile locale”: solo le soldatesse hanno la possibilità di interagire con le donne di culture islamiche, a causa delle restrittive regole di alcune tradizioni relative all’Islam.

A parte i requisiti fisici di ammissione, ovviamente diversi a causa delle differenze fisiologiche fra uomini e donne e che quindi non costituiscono una “discriminazione”, ma piuttosto una “differenza”, all’interno delle forze armate italiane non esistono distinzioni o discriminazioni particolari delle donne. Tuttavia, sottolinea il già citato documento del Ministero della Difesa, “l’addestramento congiunto di uomini e donne, dopo alcuni mesi di attività, tende in ogni caso a far convergere le prestazioni del personale dei due sessi in termini di efficienza fisica e operativa”.

In conclusione, la presenza delle donne nei conflitti a fianco degli uomini, dapprima in maniera non ufficiale e/o in ruoli di supporto, quindi in maniera ufficiale, come soldatesse, “colleghe” alla pari degli uomini, rappresenta un fattore fondamentale dell’emancipazione femminile nel mondo occidentale.

Iraqi Freedom

 

Appunti sul caso Stamina

Hanno parlato in molti del caso di Davide Vannoni e della sua Stamina Foundation, e non ho la pretesa di avere qualcosa di significativo da aggiungere al discorso. Avevo accennato il mio punto di vista a luglio, qui, e resto convinta di quello che pensavo allora: la presunta “cura” di Vannoni è una truffa, e quell’uomo mente sapendo di mentire, il che è immensamente ignobile e meschino.

Riassumo brevemente la vicenda: un servizio del programma “Le Iene” ha portato all’attenzione nazionale il dramma di Sofia, una bambina che soffre di leucodistrofia metacromatica, una malattia incurabile che la porterà alla morte entro cinque anni dalla comparsa dei sintomi, a cui era stata revocata la possibilità di usufruire della “cura compassionevole” di Davide Vannoni a causa di irregolarità serie nella preparazione della stessa riscontrate dall’AIFA. Renato Balduzzi, allora Ministro della Sanità, ha autorizzato il proseguimento delle “cure” su Sofia e altri 31 piccoli pazienti di Vannoni, andando contro le leggi e il parere dell’AIFA. Nel frattempo Vannoni ha rifiutato di sottoporre il proprio “metodo” ad una valutazione rigorosa ed oggettiva attraverso i test in doppio cieco. In seguito, un comitato di esperti del Ministero della Sanità, che intanto era passato sotto la guida di Beatrice Lorenzin, ha rigettato la documentazione fornita da Vannoni evidenziando come stralci di essa provenissero da lavori altrui e da Wikipedia: per gli esperti non c’è nulla sulla base del quale si possa dare una valutazione della “cura”. Mentre famiglie e malati disperati protestano contro la sospensione delle “cure” con il “metodo Vannoni”, un’azienda dalla reputazione non proprio limpida (15 censure da parte dell’Antitrust per pubblicità ingannevoli), specializzata in diete miracolose e cosmetici, Medestea, si accorda con Vannoni, contando di vendere a 5.000-7.000 € la presunta “cura”.

Rispetto a qualche mese fa siamo giunti in possesso di informazioni sempre più approfondite e accurate che permettono di dare valutazioni più precise sull’intera storia. Tenendo presente che i fatti devono restare la stella polare di chiunque voglia avere un’opinione seria e razionale, anche e soprattutto quando si discute di tematiche delicate come questa, dove la realtà confligge dolorosamente con ciò che vorremmo credere.

Ecco quindi un elenco di post che raccomando a chiunque voglia farsi un’idea corretta di cosa è il “caso Stamina” (consiglio di seguire anche i link interni a ciascun articolo):

– Cure con staminali: l’Italia dei pifferai, trattazione della vicenda dal punto di vista scientifico, da MedBunker;

Terapia con staminali, riassumendo…, una semplice sintesi degli aspetti scientifici e comunicativi del “caso Stamina” attraverso domande e risposte, sempre da MedBunker;

Stem-cell ruling riles researchers, editoriale di Nature che sintetizza la prima parte della storia (dal servizio delle Iene al decreto con cui l’ormai ex Ministro della Sanità, Renato Balduzzi, ha approvato la continuazione dell’uso del “metodo Vannoni” su Sofia e gli altri 31 bambini in cura all’ospedale di Brescia);

– Stamina, Medestea: «Ovvio che ci sono interessi economici», articolo di Tempi.it in cui sono confrontate le dichiarazioni di Davide Vannoni con quelle del presidente di Medestea;

– Staminali: i brevetti, i pericoli, il business, approfondimento sui brevetti di Vannoni (che non ci sono), sulle analisi dei preparati di Stamina e sulla collaborazione fra Vannoni e Medestea, da MedBunker.

PS: per chi sa già tutto e vuole saltare la parte noiosa, c’è sempre Nonciclopedia. 🙂

do’ i numeri!

Un po’ di dati, per comprendere la realtà.

non lo faccio più

numeri-2I dati sui reati a sfondo sessuale agiti da minorenni sono composti da numeri che sorprendono.

Sorprendono perchè sentiamo parlare di un caso ogni tanto e non abbiamo idea di cosa sia la violenza sessuale nel nostro paese.

Sorprendono e fanno male.

Eccoli:

In Italia, i soggetti in carico agli Uffici di Servizio Sociale per i minori (penitenziari, comunità, Centri di Prima accoglienza) per reati a sfondo sessuale, alla data del 31/12/2012, erano 1.017, di cui 211 stranieri e 806 italiani.

Tra loro 995 sono maschi e 22 sono femmine (sono compresi Detenzione di materiale pornografico e Pornografia minorile).

Di questi 1017 soggetti 579 sono colpevoli di violenza sessuale e 328 di violenza sessuale di gruppo.

Di questi 1.017 ben 252 sono stati presi in carico per la prima volta nell’anno 2012.

Sono coinvolte le province di tutta Italia.

Di questi 1.017

il 42% ha un’età tra i 16 e i…

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La vetrina dello slut-shaming

Oggi ho letto questo articolo: #Troiofobia, adolescenti, sessismi, bullismi, catene, ribellioni e desiderio, sulla negazione della sessualità femminile da una parte e la spinta a conformarsi ad un modello di seduzione e disponibilità sessuale per le adolescenti. Da una parte la società suggerisce alle ragazze che l’essere attraenti e sexy è una risorsa, una forma di potere, dall’altra le condanna se utilizzano quella “risorsa”, guardando indignata al sesso orale fatto nei bagni della scuola in cambio di ricariche e scandalizzandosi per gli autoscatti sexy nelle foto profilo di Facebook, a volte con paternalismo, a volte con aperto disprezzo per un mondo che non vuole comprendere e che non si accorge di aver creato. Anch’io penso che i modelli che la società presenta alle ragazze siano negativi, prendiamo per esempio programmi come Jersey Shore dove si esaltano l’ignoranza, l’arroganza, uno stile di vita vacuo e consumista, o come Sixteen and Pregnant, dove la maternità delle ragazzine è esaltata come momento di somma felicità e inizio di un idillio fra la mamma e il suo bambino – dimenticando che diventare madre a quell’età comporta un taglio netto con la vita precedente, responsabilità immense, spesso la rinuncia alla scuola, e in tutti i casi condiziona in modo indelebile tutta la vita futura delle ragazze, un intero immaginario sessualizzato dove le donne sono raffigurate come seducenti decorazioni adoranti degli uomini, al loro fianco come animali domestici.

Le ragazze seguono i modelli che sono posti loro di fronte come vincenti, e sono messe alla gogna per questo. Giornalisti e giornaliste scrivono lunghi articoli parlando dei danni dei social network, la vetrina di Facebook e Instagram dove mostrarsi sexy, il degrado della società priva di valori e punti di riferimento, le ragazze che ormai sono donne a 14 anni e vivono la sessualità in maniera disinibita e disinvolta ma allo stesso tempo inconsapevole e vanno protette da sé stesse e dai pericoli del mondo esterno, che in maniera bizzarra sono rappresentati più dal sesso che non dallo stupro. Intanto però nessuno riflette sul fatto che piuttosto che condannare la sessualità delle ragazze occorrerebbe insegnare loro come viverla in modo consapevole e sicuro attraverso l’educazione sessuale, un’educazione sessuale aperta, che insegni a ragazzi e ragazze non solo a prevenire le malattie sessualmente trasmissibili e le gravidanze, ma anche a scoprire il piacere, a vivere con serenità il proprio orientamento sessuale (facendo informazione su cosa significa essere gay, lesbica o bisessuale e perché è una cosa naturale, umana, non una condanna o una scelta) e a riconoscere l’importanza del consenso e la legittimità di ogni modo di vivere la propria vita sessuale.

Invece, mentre i giornalisti scrivono i loro articoli dimostrando una singolare capacità di non accorgersi della realtà, l’autodeterminazione in campo sessuale delle ragazze continua ad essere negata a causa del vecchio pregiudizio secondo cui le ragazze non dovrebbero avere desideri sessuali, pregiudizio che da una parte relega agli uomini l’onere di prendere l’iniziativa (perché una ragazza che ci prova con un ragazzo è sicuramente una facile) e dall’altra impedisce che le ragazze siano in grado di esprimere i propri desideri. L’unica forma di sessualità che sembra accettata è il compiacere il partner.

Lo slut-shaming, ovvero il mettere alla gogna come “troie” le ragazze che si vestono in modo sexy o hanno/si ritiene che abbiano una vita sessuale attiva ed eventualmente promiscua (vedi quiquiqui e pure qui), è uno di quei temi-spia che affiorano un po’ ovunque su Facebook, insieme a demagogia, razzismo malcelato, odio per la ka$ta, animalismo, giustizialismo spicciolo e l’occasionale spruzzo di misoginia, di solito quando si parla di Laura Boldrini, che ha la singolare capacità di fungere da catalizzatore di diversi elementi di questa lista. Non oso pensare a cosa accadrebbe se si dichiarasse pro-SA. Ognuno di questi argomenti lampeggia ininterrottamente, ricordandomi quando la strada sia lunga e impervia. Ognuno di questi temi ci mostra che una grossa fetta della società non ha ancora compreso principi fondamentali come la libertà di scelta, l’uguaglianza, il discernimento fra fatti e opinioni e le basi del diritto.

Oggi ho scoperto una pagina interamente dedicata al raccogliere immagini di ragazze, con tanto di “etichetta” con nome ed età, affinché l’utenza possa riversare su di loro il proprio disprezzo moralista. La pagina si chiama  Chiamarsi “cagna” senza apparenti sembianze canine. Alcune fotografie sono tratte da profili pubblici di ragazze normali, autoscatti, foto di feste e serate in discoteca, , altre sono di ragazze che hanno parecchio seguito su Instagram, altre da profili di modelle, fashion blogger e aspiranti celebrità, altre ancora sono servizi fotografici di donne famose, come Paris Hilton, Rihanna, Elisabetta Canalis, Emma Watson, Megan Fox, altre sono di ragazze-immagine ai saloni di moto, altre foto da giornale di gossip di celebrità al mare in bikini (scandaloso!). Tutto fra brodo pur di insultare le donne e le ragazze che sfoggiano il proprio corpo, non serve distinguere, per gli utenti di quella pagina il voler apparire in modo sexy è automaticamente disgustoso e immorale. è un tiro al bersaglio.

Non manca in contrapposizione alle ‘troie’ il Finezza Time, in cui l’admin mostra ai fan com’è una ‘vera donna’ di classe. Perché la sua raffinata utenza, dopo centinaia di commenti che oscillano fra “me la porterei a letto” e “che puttana”, ha bisogno di essere elevata alle visione di angeliche creature che non portano abiti scollati, minigonne o shorts, coprendo i loro leggiadri corpi con eleganza e pudicizia. Perché “Lei non ha bisogno di spogliarsi come le cagne. A lei basta uno sguardo e un sorriso”.

Il caso emblematico che ho preso in considerazione è una foto molto semplice di una ragazza di 15 anni, Chiara Nasti, fashion blogger. Un autoscatto davanti allo specchio della sua stanza con un’amica dopo aver provato un nuovo look. Chiara Nasti

I commenti trasudano disprezzo per le donne in generale, molti si augurano di avere figli maschi perché “le ragazzine sono tutte troie”, emblema del “degrado della società moderna”, causato dalle madri che evidentemente sono altrettanto “troie” e non hanno saputo insegnare i veri valori a queste ragazzine scostumate e immorali. Non mancano appelli al decoro, come se vestirsi in modo sexy fosse una cosa indecente e irrispettosa.

Una convinzione piuttosto diffusa è che il vestirsi da “troie” riveli che coloro che lo fanno sono automaticamente persone prive di una morale e di valori, e che di conseguenza sono destinate a finire ai margini delle strade perché i loro genitori non hanno saputo dare loro una corretta educazione, che a giudicare da questi individui prevede un’ampia dose di punizioni corporali. A nessuno, nessuno, nessuno passa neanche lontanamente per la testa che l’essere sexy è una forma di libera espressione di sé. Ci sono solo due atteggiamenti possibili: scoparle come forma di “punizione” (per averli provocati, o per averli oltraggiati con il loro abbigliamento indecoroso, suppongo) o manifestare aperto disgusto e disprezzo.

Non ho neppure la forza di mettermi a fare screenshot dei commenti peggiori. Questo è il degrado: gente che giudica le ragazze e le donne dai centimetri di pelle esposta e che dà dei moralisti a coloro che rivendicano la loro libertà.

Donna e giudice: il genere e il ruolo

Questo post è la ripresa, a fini divulgativi, di un’intervista di Alessandra Beltrame alla giudice Paola Di Nicola, comparsa su Donna Moderna nel marzo 2013. Non ho modificato l’articolo dal punto di vista dei contenuti, sebbene in certi punti sentissi il bisogno di farlo, per correttezza. I grassetti sono miei.

Il “conflitto” fra genere e ruolo è ritenuto un problema che riguarda solo le donne, come se per un uomo il genere non influisse in alcun modo sulla sua imparzialità (nei confronti degli uomini il problema è posto quasi solo da femministe consapevoli di come la cultura e i pregiudizi influenzino tutti, senza che ne siamo consapevoli, e di come basti alterare la narrazione di un fatto per influenzare la percezione che la gente ne ha; tuttavia questo non significa attaccare gli uomini in quanto tali o presumere che gli uomini si difendano a vicenda in quanto uomini, significa porre l’attenzione su un contesto sociale e culturale più ampio che ha degli effetti sulle nostre azioni, sulla nostra visione del mondo e sulle nostre scelte). Io credo, comunque, che una persona che svolge una professione come quella del giudice sia consapevole dell’importanza e della delicatezza di quello che sta facendo e che sappia mettere la professionalità e la competenza al di sopra di qualsiasi altra cosa quando affronta un processo.

Paola di Nicola, al centro della foto.
Paola di Nicola, al centro della foto.

” – Chi mi processerà? Un giudice o una donna? – ha chiesto due giorni fa un arrestato prima dell’udienza per direttissima. Non è una frase detta tanto per dire. Significa che la persona che devi giudicare non ti riconosce nel ruolo. Perché sei una donna”. Paola Di Nicola fa il magistrato da vent’anni (ne ha 46), ora al Tribunale penale di Roma. E, strano ma vero, queste frasi continua a sentirle. Prima si irrigidiva, oggi sa reagire. Come racconta in La Giudice (881 Agency/Ghena), libro con cui si è tolta un bel po’ di “sassolini” dalle scarpe con i tacchi, che oggi porta orgogliosa. Non basta indossare una toga per scacciare i pregiudizi. D’altro canto, lo sapevate?, le donne sono entrate in magistratura solo 50 anni fa (nel 1963), mentre prima erano state escluse perché considerate “superficiali, emotive, passionali, e quindi non indicate per la difficile arte del giudicare”, ricorda Paola Di Nicola, citando le parole di un illustre magistrato degli anni Cinquanta. Ma oggi le magistrate sono il 46% (però solo il 10 nelle posizioni di vertice) e si avviano al sorpasso: l’ultimo concorso è stato vinto da 114 maschi e 210 femmine.

D: Nonostante i giudici donna siano ormai quasi la metà, possibile che le discriminazioni siano ancora diffuse?

R: Purtroppo sì. Il pregiudizio c’è. E, di conseguenza, la mancanza di rispetto. Ci sono uomini che ti guardano con insistenza il décolleté; quelli che fanno la battuta volgare. Quelli che non ti ritengono credibile. Come quando ti vedono in udienza e ti dicono, come mi è successo: “Signuri’, vacci a chiamare ‘o giudice”.

D: Il suo viaggio nel mondo della giustizia visto con gli occhi di una donna comincia con un interrogatorio. Ce lo racconta?

R: Ho incontrato in carcere un criminale, imputato di reati gravissimi. Lui mi guardava in modo insistente. Mi sentivo a disagio. “Perché?”, mi sono chiesta. Allora mi sono vista come davanti a uno specchio. Con la mia camicetta a fiori; i tacchi che risuonavano sul pavimento; la collana di perle. E la borsa da Mary Poppins, con dentro anche gli ovetti Kinder per i miei bambini, invece di una austera cartella. La toga non nascondeva la mia femminilità. Sotto lo sguardo di quest’uomo, mi sentivo come denudata.

D: Al punto da desiderare di “avere la barba”.

R: Un uomo non avrebbe avuto su di sé quello sguardo molesto. Leggendomi dentro, ho capito una cosa: che il pregiudizio era prima di tutto dentro me stessa. Noi per prime ci sentiamo inadeguate a fare mestieri dove finora i modelli sono stati tutti maschili. Ma non è facile se, al primo incarico, il tuo capo ti domanda: “Ha intenzione di fare figli? Sarebbe un problema”. E’ da lì che cominci a vivere la tua femminilità quasi come una colpa. Con un capo donna, forse non ci avrei messo 20 anni per portare una camicetta a fiori e sentirmi ugualmente autorevole.

D: Racconta che la vita da magistrata è faticosa, fra sopralluoghi, udienze-fiume e le tante ore passate a scrivere le sentenze. Dice che non si è goduta i figli. Pentita?

R: No, ma è la verità. Però ho ingaggiato una prova di forza contro una mentalità distorta (innanzitutto mia!) che vive con senso di colpa la maternità. Per 19 anni ho lavorato a 80 chilometri di distanza da casa, partivo all’alba e tornavo prima di cena. I figli, se li coinvolgi, capiscono: un giorno li ho portati con me, ho fatto vedere loro dove lavoravo. Da allora non hanno più fatto i capricci.

D: I suoi colleghi non le hanno reso la vita facile: quando ha chiesto di trasferirsi in una sede più vicina a casa, gliel’hanno negato perché era separata.

R: Se fossi stata con mio marito me l’avrebbero concesso: strano, no? Ho dovuto fare una causa, che ho vinto, per vedermi riconoscere questo diritto. Ora lavoro a Roma e vado a lavorare in bicicletta. Impagabile.

D: Cosa portano le donne in magistratura?

R: Un diverso punto di vista. Una diversa sensibilità, in particolare per i reati più segnati dai pregiudizi: quelli degli stranieri e delle donne. L’accusa che ci veniva rivolta, quella di essere emotive, diventa un valore aggiunto. Le faccio un esempio. Un giudice uomo chiede sempre alla vittima di uno stupro: “Perché non ha gridato?”. Una giudice no, non fa questa domanda. Perché sa come una donna reagisce, perché quella donna forse è stata lei. Da ragazzina su un autobus affollato mi è capitato di subire palpeggiamenti. Cercavo di allontanarmi, ma non ho mai urlato. Perché ero paralizzata dalla vergogna, dalla paura. Una donna giudice, questo, lo sa.

D: Coinvolge ancora i figli nel suo lavoro?

R: A volte mi aiutano a trasportare in studio i voluminosi e sgualciti faldoni dei processi, così si rendono conto del peso (e delle pecche!) della giustizia. E mi sono fatta accompagnare da mio figlio in tipografia per ordinare il nuovo timbro per firmare le sentenze, dove ho fatto scrivere “la giudice”. E sottolineo il “la”.

D: Perché è così importante specificare l’articolo femminile?

R: Perché vuol dire che non mi devo più nascondere. Finalmente sono libera, libera di essere donna. Anche e soprattutto quando giudico.

Paola Di Nicola ha rilasciato un’intervista, dal taglio più personale, anche al sito Tipi Tosti, qui: Paola Di Nicola, giudice, si racconta anche come mamma. L’intervista approfondisce il tema della conciliazione fra lavoro e famiglia e quello del modo in cui la giudice svolge il suo lavoro, valutando il contesto per cercare di avere più elementi possibile a disposizione prima di trarre un giudizio. “Coscienza e responsabilità” sono le parole che usa per descriverlo, parole bellissime, secondo me.