All’inizio del Novecento, mentre si sviluppava la società di massa, le donne rivendicarono il loro diritto ad essere cittadine attivamente partecipi alla vita politica attraverso i movimenti suffragisti; in particolare nel Regno Unito la Women’s Social and Political Union, fondata nel 1902 da Emmeline Pankhurst, riuscì a imporsi nel dibattito politico. Le militanti per il diritto di voto, chiamate suffragette, si batterono per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema con marce sul Parlamento, scioperi della fame, azioni di vandalismo contro le vetrine dei negozi. Una di loro, Emily Davison, morì travolta dal cavallo del re dopo essersi gettata in mezzo alla pista, cercando di issare la bandiera del WSPU sul cavallo stesso. Queste azioni spettacolari erano dovute al fatto che le organizzazioni politiche femminili erano illegali, e la disobbedienza civile era l’unica strada percorribile per far sentire la propria voce.
Tuttavia, il fattore decisivo di svolta fu lo scoppio della prima guerra mondiale. L’invio massiccio di uomini al fronte aprì alle donne il mondo del lavoro, abbattendo la barriera fra i lavori tradizionalmente riservati alle donne e quelli tradizionalmente riservati agli uomini; inoltre, esse iniziarono a lavorare nelle fabbriche di armi, dove i salari erano spesso il doppio rispetto alle fabbriche “civili”. Ciò rese le donne più consapevoli delle proprie capacità, in quanto dimostrarono la loro attitudine fisica e mentale a svolgere compiti “maschili”, contro gli stereotipi che precludevano loro queste mansioni, e diede loro maggiori spazi di autonomia, riflessi anche in un cambiamento della moda, con l’abbandono dei vestiti di foggia ottocentesca e dei corpetti in favore di abiti più corti e leggeri (artefice di questo processo è soprattutto Coco Chanel). Il riconoscimento dell’emancipazione femminile e dell’importanza del ruolo svolto dalle donne nel conflitto fu la concessione del diritto di voto, che avvenne nel 1918 in Gran Bretagna, nel 1919 in Germania e nel 1920 negli USA.
Il ruolo delle donne nella seconda guerra mondiale fu ancora più significativo. Quasi 350.000 donne prestarono servizio nelle forze armate statunitensi, svolgendo sia compiti di amministrazione, sia di logistica, sia lavorando come meccanici, operatori radio, addestratrici di soldati uomini, infermiere. (dati tratti da The National WWII Museum | Women in WWII.) Peggy Carter, il soldato donna di cui si era innamorato Capitan America, non è solo un personaggio di fantasia, ma l’emblema dell’apertura di un nuovo ruolo alle donne.
In Italia, le donne svolsero un ruolo significativo nella Resistenza partigiana contro i nazisti, combattendo sul campo al fianco degli uomini, agendo come informatrici, svolgendo le fondamentali operazioni di collegamento fra i vari nuclei di partigiani (trasportando armi ed esplosivo, messaggi e le disposizioni del Comitato di liberazione nazionale ai singoli gruppi), nascondendo e curando i feriti, organizzando alloggi clandestini e luoghi di incontro per i capi militari e politici del movimento partigiano, e infine redigendo le pubblicazioni della stampa clandestina. Tra di loro, Iris Versari, Elettra Pollastrini, Gisella Floreanini e tante altre donne della Liberazione, ricordate dal blog Bambole Spettinate&Diavole del Focolare. Le partigiane hanno collaborato con gli uomini in una situazione in cui la necessità ha scardinato i tradizionali ruoli di genere, creando una situazione di concreta parità e condivisione di ideali, responsabilità e timori. Nel frangente della Resistenza, donne e uomini sono stati realmente alleati, realmente compagni di lotta, e questo ha favorito l’inserimento di donne rispettate per il valore dimostrato nella lotta all’interno delle istituzioni politiche: non è un caso che il primo ministro donna della storia dell’Italia repubblicana provenisse dall’ambiente partigiano.
Oggi le donne fanno parte delle forze armate di molti Stati e possono ricoprire ruoli di combattimento attivo in combattimento attivo negli eserciti di Australia, Nuova Zelanda, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Norvegia, Israele, Serbia, Svezia, Svizzera e anche qui in Italia, dove l’ingresso delle donne nelle forze armate è stato sancito nel 1999.
Come sottolinea il documento “Le donne nelle forze armate” (disponibile in .pdf su Internet, cercatelo), redatto dal Ministero della Difesa italiano, l’inserimento delle donne nei vari reparti dell’esercito italiano non ha comportato alcun problema, anzi si nota una perfetta sintonia fra soldati uomini e soldati donne. Inoltre, “nell’Esercito la presenza femminile, con incarichi assegnati senza alcuna limitazione di sorta, ha rappresentato in talune circostanze – operazioni in ambienti culturali diversi da quelli occidentali quali l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano – un elemento indispensabile per lo svolgimento di “attività” verso la popolazione femminile locale”: solo le soldatesse hanno la possibilità di interagire con le donne di culture islamiche, a causa delle restrittive regole di alcune tradizioni relative all’Islam.
A parte i requisiti fisici di ammissione, ovviamente diversi a causa delle differenze fisiologiche fra uomini e donne e che quindi non costituiscono una “discriminazione”, ma piuttosto una “differenza”, all’interno delle forze armate italiane non esistono distinzioni o discriminazioni particolari delle donne. Tuttavia, sottolinea il già citato documento del Ministero della Difesa, “l’addestramento congiunto di uomini e donne, dopo alcuni mesi di attività, tende in ogni caso a far convergere le prestazioni del personale dei due sessi in termini di efficienza fisica e operativa”.
In conclusione, la presenza delle donne nei conflitti a fianco degli uomini, dapprima in maniera non ufficiale e/o in ruoli di supporto, quindi in maniera ufficiale, come soldatesse, “colleghe” alla pari degli uomini, rappresenta un fattore fondamentale dell’emancipazione femminile nel mondo occidentale.