Le donne sono violente tanto quanto gli uomini? Falso!

La violenza di genere è un fenomeno internazionalmente riconosciuto, un criterio di analisi che copre le forme di violenza le cui vittime sono donne, ragazze e bambine e i cui colpevoli sono uomini: femminicidi, stupri, molestie sessuali, violenza domestica, ecc. Tentare di smantellare questo criterio attraverso la tesi secondo cui sarebbe parziale, in quanto questi fenomeni sono egualmente distribuiti fra i generi sia in relazione alle vittime sia in relazione ai perpetratori, è intellettualmente disonesto e non supportato da alcuna evidenza empirica che regga ad una seria revisione delle procedure metodologiche.
Ora, a nessuno piace scavare nei dati, ma qualsiasi opinione che voglia avere una pretesa di validità deve fondarsi sui dati. I dati che ho scelto di riportare oggi sono tratti dal The National Intimate Partner and Sexual Violence Survey – 2010 Summary Report Prevention (disponibile in pdf), a cura di Michele C. Black, Kathleen C. Basile, Matthew J. Breiding, Sharon G. Smith, Mikel L. Walters, Melissa T. Merrick, Jieru Chen e Mark R. Stevens per conto del National Center for Injury Prevention and Control, ramo del Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta, Georgia, pubblicato nel 2011, e si riferiscono ovviamente agli Stati Uniti. Le traduzioni dei passi della ricerca sono riportate con nota del numero della pagina nel pdf di cui sopra.
Iniziamo dagli aspetti metodologici della ricerca, quelli da cui si evince la qualità e la generalizzabilità dei dati ottenuti. Il NIPSVS è “un’indagine rappresentativa a livello nazionale svolta con tecnica telefonica RDD (random digit dial) che raccoglie informazioni sulle esperienze di violenza sessuale, stalking, violenza nelle relazioni, su uomini e donne che parlano inglese e/o spagnolo e non sono istituzionalizzate/i, hanno età maggiore o uguale a 18 anni e vivono negli USA” (pag. 1). “Interviste complete sono state ottenute da 16.507 adulti (9086 donne e 7421 uomini)” (pag. 1), a partire da un totale di “18.049 interviste (9970 donne e 8079 uomini) svolte sulla popolazione generale degli Stati Uniti” (pag. 8). Si hanno perciò 1542 interviste incomplete. “Solo intervistatrici donne hanno somministrato l’indagine, dato che ricerche precedenti hanno mostrato che intervistatrici donne potrebbero con maggiore probabilità creare condizioni che inducano i rispondenti ad aprirsi (Dailey e Claus, 2001)” (pag. 11).  La nota metodologica prosegue notando che laddove l’errore standard relativo (RSE) ottenuto al momento dello splitting dei dati in alcune categorie era maggiore del 30%, o laddove la stima era basata su un numero di casi minore o uguale a 20, i dati non sono stati riportati perché non avrebbero nessun valore.
“All’interno delle categorie di violenza (es: stupro, altra violenza sessuale, ogni forma di grave violenza fisica, ogni forma di impatto della violenza domestica riportata) i rispondenti che hanno riportato più di una sottocategoria di violenza sono stati inclusi solo una volta nelle stime, ma sono inclusi in ogni sottocategoria rilevante. Per esempio, una vittima di penetrazione completa sotto l’effetto di alcool o droga e di penetrazione completa forzata è inclusa i entrambe le sottocategorie dello stupro, ma è conteggiata una sola volta nelle statistiche sulla diffusione dello stupro” (pag. 12).

Nelle ultime due colonne a destra, le percentuali (sul totale delle donne statunitensi) di coloro che hanno subito stupri e altre violenze nei 12 mesi precedenti all'inchiesta.
Nelle ultime due colonne a destra, le percentuali (sul totale delle donne statunitensi) di coloro che hanno subito stupri e altre violenze nei 12 mesi precedenti all’inchiesta.

 

Nelle ultime due colonne a destra, la percentuale (sul totale degli uomini statunitensi) di coloro che hanno subito stupri o altre violenze nei 12 mesi precedenti all'inchiesta.
Nelle ultime due colonne a destra, la percentuale (sul totale degli uomini statunitensi) di coloro che hanno subito stupri o altre violenze nei 12 mesi precedenti all’inchiesta.

“Quasi 1 donna su 5 negli USA è stata stuprata nel corso della sua vita (18,3%). Questo equivale a quasi 22 milioni di donne negli USA. La forma più comune di stupro vissuta dalle donne è stata la penetrazione completa forzata, vissuta dal 12,3% delle donne negli Stati Uniti. Il 5,2% ha vissuto un tentativo di penetrazione forzata, e l’8% una penetrazione completa sotto l’effetto di alcool o droga. […] Circa 1 su 71 uomini negli USA (1,4%) ha riportato di essere stato stuprato nel corso della sua vita, il che si traduce in quasi 1,6 milioni di uomini negli USA” (pag. 18).
“Quasi 1 donna su 2 (44,6%) e 1 uomo su 5 (22,2%) ha vissuto una forma di violenza sessuale diversa dallo stupro nell’arco della propria vita” (pag. 19)”. I dati esatti sono contenuti nelle tabelle, perciò non li riporto uno per uno.

“Più della metà delle vittime di stupro donne (51,1%) ha riportato che almeno uno dei perpetratori era un partner o un ex partner. Quattro vittime donne su 10 (40,8%) hanno riportato di essere state stuprate da un conoscente. Quasi una vittima donna su 8 (12,5%) ha riportato di essere stata stuprata da un membro della sua famiglia, e il 2,5% da una persona in posizione d’autorità. Quasi 1 vittima donna su 7 (13,8%) ha riportato di essere stata stuprata da un estraneo. Per quanto riguarda il solo stupro in cui la vittima era sotto l’effetto di alcool o droga, la metà delle vittime donne (50,4%) è stata stuprata da un conoscente, mentre il 43% dal partner” (pag. 21).

“Più della metà delle vittime di stupro uomini (52,4%) è stata stuprata da un conoscente, e una vittima uomo su 7 (15,1%)  stata stuprata da un estraneo” (pag. 22). Le stime per le altre tipologie non sono state riportate in quanto basate su un campione troppo piccolo per essere affidabili.

“Per le vittime di stupro donne, il 98,1% ha riportato di essere stata stuprata solo da perpetratori uomini. Inoltre, il 92,5% delle vittime donne di altre forme di violenza sessuale ha riportato solo perpetratori uomini. […] La maggioranza delle vittime di stupro uomini (93,3%) ha riportato di essere stato stuprato solo da perpetratori uomini. Per tre delle altre forme di violenza sessuale la maggioranza delle vittime uomini ha riportato solo perpetratori donne: essere forzati a penetrare qualcuno (79,2%), coercizione sessuale (83,6%) e contatti sessuali non consensuali (53,1%). Per le molestie sessuali senza contatto, circa metà delle vittime uomini (49%) ha riportato solo perpetratori uomini e più di 1/3 (37,7%) solo perpetratori donne”. (pag. 24).

Età delle vittime al primo stupro, per le donne.
Età delle vittime al primo stupro, per le donne.

 

Le donne stuprate quando erano minorenni hanno una probabilità più che doppia (35% contro 14%) di essere nuovamente stuprate da adulte.
Le donne stuprate quando erano minorenni hanno una probabilità più che doppia (35% contro 14%) di essere nuovamente stuprate da adulte.

“Più dei 3/4 delle vittime donne di stupro riuscito (79,6%) sono state stuprate per la prima volta prima del loro 25esimo compleanno, con il 42,2% che ha vissuto il primo stupro prima dei 18 anni (di cui il 29,9% tra gli 11 e i 17, il 12,3% prima dei o ai 10 anni)” (pag. 25). La maggioranza di esse è stata stuprata tra i 18 e i 24 anni, tuttavia (37,4%). “Più di un quarto delle vittime di stupro riuscito uomini (27,8%) è stato stuprato per la prima volta quando avevano 10 anni o meno” (pag. 25).

Quello che possiamo concludere dall’analisi dei dati relativi allo stupro e alle violenze sessuali è che:
– esse sono compiute, con una predominanza schiacciante (>90%), da uomini, sia su uomini che su donne;
– le vittime uomini sono molte meno delle vittime donne (non che sia una gara, ma è intellettualmente disonesto affermare il contrario): 18,3% contro 1,4%;
– le vittime uomini sono in maggioranza bambini di età fino a 10 anni (27,8%), mentre la fetta più grossa di vittime donne sono giovani fra i 18 e i 24 (37,4%).

Il peso del lavoro di cura

Tutti i dati seguenti sono tratti dal saggio Di mamma ce n’è più d’una di Loredana Lipperini.

In Italia le coppie senza figli sono cinque milioni e quattrocentomila (5.400.000) e rappresentano il 22,1% delle famiglie. Le madri single sono 700.000 e rappresentano il 7,1% delle famiglie. Le coppie con figli sono nove milioni e trecentomila, il 38,1%.

“I tassi di occupazione femminili diminuiscono fortemente all’aumentare del numero di figli. Da 0 a 1 figlio calano di 5 punti, da o a 2 figli di 10 punti, da o a 3 figli di 25 punti. Le interruzioni del lavoro sono elevate: il 30% delle madri con meno di 65 anni che lavorano o hanno lavorato in passato ha interrotto l’attività lavorativa per motivi familiari (matrimonio, gravidanza o altro) contro il 2,9% degli uomini. L’8% delle donne che hanno lavorato o lavorano è stata costretta a dimettersi per gravidanza, e il dato è più elevato nelle generazioni più giovani”, afferma Linda Laura Sabbadini, direttrice dell’ISTAT.

Il 76% del lavoro di cura della coppia è a carico delle donne, la situazione migliora più per il taglio operato dalle donne che per l’aumento del contributo maschile. in particolare, l’indice di disuguaglianza cala sotto il 70% solo se la donna lavora e non ci sono figli, e nelle coppie dove la donna è una lavoratrice laureata (67%). Dove la donna non lavora, sale fino all’83%.

In un giorno medio cucina il 90,5% delle donne che lavorano e il 97,8% di quelle che non lavorano, pulisce la casa l’82,7% delle donne che lavorano e il 94,8% di quelle che non lavorano, apparecchia, sparecchia e lava i piatti il 66,3% delle occupate e il 76,5% delle non occupate, lava o stira il 35,7% delle occupate e il 49,2% delle non occupate. Fa la spesa il 44,4% delle occupate e il 66,2% delle non occupate.

In un giorno medio cucina il 41,7% dei partner di donne occupate e il 21% dei partner di donne non occupate, collabora alle pulizie di casa il 31,4% dei partner di donne occupate e il 16% circa dei partner di donne non occupate, fa la spesa il 29,9% dei partner di donne che lavorano e il 27,2% dei partner di donne che non lavorano, apparecchia e riordina la cucina il 26,6% dei partner di donne che lavorano e il 13% circa dei partner di donne che non lavorano.

La cura dei figli tocca per il 65,8% alle donne lavoratrici e per il resto al partner (una donna dedica in media alla cura dei figli 2h13 min, un uomo 1h23 min, con mansioni diverse: cure fisiche e sorveglianza per le madri, gioco per i padri. Il gioco è diviso in maniera quasi paritaria: 41,5% del tempo dedicato da entrambi, mentre i compiti spettano per il 19,3% alle madri e per il 4,8% del tempo ai padri); se la donna non è lavoratrice, il 75,6% della cura dei figli tocca a lei e il partner fa molto meno.

Non penso ci sia bisogno di spiegare perché queste disuguaglianze sono inique, ma penso sia interessante analizzare il loro ruolo nel mantenere un sistema che non permette la crescita dell’occupazione, così come è stato individuato da Emilio Reyneri nel suo libro “Sociologia del Mercato del Lavoro”. In Italia, il tasso di occupazione è molto elevato per i maschi adulti, arrivando al 90,9% al Nord, 87,7% al Centro e 73,5% al Sud (il problema dell’occupazione nel Mezzogiorno è complesso e non può essere trattato qui): è parecchio più basso per i giovani (dal 33,7% del Nord al 19% del Sud) e per gli anziani (44,7% al Nord, 47,7% al Sud), ma si tratta di fenomeni legati ad un complesso di fattori culturali ed economici che definiscono la struttura occupazionale italiana. Confrontandolo con quello delle donne, 56,4% al Nord, 52,3% al Centro e 30,4% al Sud, appare stridente la distanza.

Appare anche evidente che aumentare il tasso di occupazione significa aumentare il tasso di occupazione di giovani e donne (per gli anziani si è già intervenuti aumentando l’età del pensionamento; per gli anziani già in pensione o prepensionamento, invece, non si può fare nulla). A questo proposito Reyneri scrive: “Un numero crescente di donne è presente nel mercato del lavoro come occupate o in cerca di lavoro e molte altre vi entrerebbero se vi fossero minori difficoltà a trovare un’occupazione e/o se esistessero adeguati sostegni ai carichi di lavoro familiare. L’esistenza di una disoccupazione femminile ‘scoraggiata’ o latente fa sì che il tasso di disoccupazione non basti più a indicare il livello di criticità di un mercato del lavoro. In particolare, il ricorso al tasso di occupazione come obiettivo da raggiungere impedisce di ridurre artificialmente il livello della disoccupazione con misure che incentivano le donne a rinunciare alla ricerca di lavoro, accettando di rimanere casalinghe a tempo pieno. Questo è un esito implicito nelle politiche pubbliche (dai sistemi di tassazione fondati sul reddito familiare ai sussidi monetari per la cura di anziani) che si dicono centrate sulla famiglia, ma che in realtà presuppongono il lavoro non retribuito delle donne”.

Il complesso delle politiche pubbliche di cui parla Reyneri è quello che lui chiama “welfare familistico”, in quanto opposto al welfare dei Paesi nordici, fondato sul circolo virtuoso dell’occupazione femminile: donne che lavorano = più reddito + meno tempo -> più domanda di servizi -> più occupazione femminile, e così via. Il welfare familistico comporta meno costi per lo Stato, in quanto implementare i servizi di cura pubblici risulta notevolmente costoso, ma sul lungo periodo è svantaggioso per l’economia e continua a perpetuare una disuguaglianza di genere già profondamente radicata per ragioni culturali.

A ulteriore conferma di queste ragioni culturali, Reyneri scrive: “Fa riflettere l’osservazione dell’OCSE che i tassi di occupazione delle giovani donne sono minori nei Paesi in cui è più radicata l’opinione che il lavoro della madre andrebbe a detrimento dei figli piccoli. E anche la relazione (debolmente) positiva tra partecipazione delle donne al lavoro extra-domestico e disponibilità di strutture per la cura dei bambini sino a 3 anni non incrina l’importanza degli aspetti culturali […] In Lombardia […] la gran maggioranza delle donne iscritte ai centri per l’impiego risulta disoccupata di lungo periodo anche perché è disposta ad accettare soltanto occupazioni che interferiscano poco sulla propria presenza in famiglia, quindi a tempo parziale (di mattina) e vicine alla propria abitazione. E per di più rifiuta l’idea che tale rigidità nella disponibilità al lavoro possa essere attenuata da una maggiore offerta di servizi diretta ad alleviare i carichi di cura e lavoro familiare. Dunque, ciò che porta queste donne (quasi tutte poco istruite) ad anteporre le esigenze familiari agli obiettivi lavorativi è soprattutto un orientamento culturale (Zanfrini e Zucchetti, 2003)”.

La conclusione è che l’economia italiana trarrebbe vantaggio, sebbene non immediato, dall’innescare il circolo virtuoso dell’occupazione femminile, e che siccome i fattori culturali sono quelli su cui un intervento richiede più tempo (almeno una generazione, nella migliore delle ipotesi), l’unico punto da cui lo Stato può partire è quello di rendere disponibili quei servizi pubblici (asili nido, case di riposo, ecc) che, almeno per una parte delle donne, potrebbero incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro.