Proseguendo la serie di post dedicata a Guerra alle Donne di Michela Ponzani, di cui potete trovare la parte precedente qui, tratterò del quinto capitolo, “Fame, solitudine, abbandono”, che tratta delle forme di «resistenza civile» messe in atto dalle donne per sopravvivere, materialmente e psicologicamente, alle dure prove del conflitto, strategie che variano, ovviamente, in base ai diversi contesti geografici e ai problemi e risorse presenti.
La «resistenza civile» è “la prima arma che si ha per sopravvivere; una forma di lotta essenziale, non secondaria, per garantire «quelle azioni di erosione continua, se pure meno eclatante, del potere degli occupanti». La «cura della vita, anche nella sua dimensione quotidiana», assume il significato «di un’opposizione e l’affermazione di una soglia oltre la quale la violenza di chi la guerra aveva voluto non poteva più essere accettata»”, spiega Ponzani.
Questo capitolo si incentra sulle strategie di sopravvivenza delle donne in lotta contro la fame e le profonde conseguenze psicologiche che comporta: “lo stato di denutrizione patita nei giorni del conflitto si accompagna all’incontro col deperimento fisico, con la perdita della propria femminilità e in alcuni casi anche con la morte; è per questo che la memoria della fame non dà tregua, quasi come se la guerra altro non fosse stata che il senso di angoscia per non riuscire a trovare un mezzo di sostentamento e per far fronte all’aumento dei prezzi dei generi alimentari”. Le donne si affannano tutto il giorno per riuscire a scambiare i loro beni per un po’ di cibo con cui nutrire i loro figli, privandosene per darlo a loro, in una “continua situazione di precarietà dove non c’è più protezione, sicurezza e ordine sociale“.
In alcuni casi fra le donne accomunate dalla stessa situazione, rimaste sole per la partenza degli uomini al fronte, o perché prigionieri, dispersi o deportati, si creano «reti di solidarietà, soprattutto tra donne e tra famiglie, spesso legate da parentele o da amicizie, spesso anche del tutto reciprocamente sconosciute». In Germania le donne che si arrangiano per sopravvivere con quello che trovano sono chiamate Trümmerfrauen, “donne delle macerie”, e sono coloro che “decidono di «rimboccarsi le maniche per ricostruire, dalle rovine delle città distrutte, la nuova Germania». I loro sforzi non sono però destinati a rimettere in piedi la patria esaltata dal regime nazista; quel Terzo Reich che ha promesso destini tanto grandiosi quanto improbabili. La battaglia di queste donne tedesche che «andavano a caccia di cibo tutti i giorni» è tutta per i figli”, chiarisce Ponzani.
Disfando coperte e lenzuola, riciclando la lana dei materassi, insieme a tutti i capi di abbigliamento non necessari come i veli, le donne rammendano e creano nuovi vestiti, fanno scarponi con pezzi di cuoio grasso. Si ingegnano a preparare qualsiasi cosa sia commestibile, imparano a riconoscere le piante selvatiche commestibili, svolgono qualunque lavoro in cambio di un po’ di cibo. Le donne, nelle loro testimonianze di quando erano bambine ricordano le lunghe file per le razioni previste dalla tessera annonaria, i bollini, i momenti di gioia quando il padre che lavorava sotto i comandi militari tedeschi tornava a casa con un po’ di zuppa e un pezzo di pane nero nella gavetta, le contadine che per le strade di Napoli vendevano ranocchiette scuoiate o piccole cozze con cui preparare il brodo, “piacevoli sentori di una convivialità che tuttavia non è uguale per tutti e che appare sporadicamente soltanto […] dove la presenza stanziale delle truppe può comunque garantire una minima quantità di cibo razionato”, il sistema di scambi con chi aveva qualcosa, come fornai e contadini, l’«ortica cotta e condita con sale raschiato dai barili di acciughe, per gentile concessione del nostro salumiere».
Si tratta di una lotta per la sopravvivenza. “Lo stato di denutrizione estrema, lo stress di una vita continuamente a rischio, il terrore della morte, lasciano però segni pesanti anche sul corpo delle donne adulte, perché la sofferenza fisica che si patisce sfocia ben presto in vere e proprie patologie, come denota la scomparsa delle mestruazioni. E ciò significa assistere visivamente al dissolvimento delle forme che denotano la propria identità di donna, della propria femminilità. «Non c’è stata nessuna donna che avesse le mestruazioni», ha dichiarato la partigiana Carla Capponi”, spiega Ponzani.
La storica prosegue parlando delle condizioni delle donne nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove «il corpo subisce una repentina e costante trasformazione con il deperimento, la perdita delle mestruazioni, le piaghe dell’avitaminosi, i pidocchi, i segni delle scudisciate, la perdita dei denti, i dolori alle ossa». Sono circa 45.000 le donne internate nel lager di Ravensbrück Fürstenberg/Havel, nella Germania orientale. Entrato in funzione nel 1939, è un campo prevalentemente femminile, destinato alle «prigioniere politiche» provenienti da tutti i paesi invasi e occupati dalle truppe hitleriane: le donne che vi arrivano hanno viaggiato sui convogli provenienti dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Francia e dall’Italia. Decine di migliaia saranno uccise proprio dalla fame, oltre che dalle malattie o a causa di esperimenti medici. Costrette a resistere come possono agli stenti, alla denutrizione, al rigidissimo clima invernale, le italiane internate a Ravensbrück sono a oggi conteggiate in 768, ma il loro numero è destinato a salire a 871 «se si tiene conto dei transiti complessivi»”.
Nel campo, “l’accanimento del personale di sorveglianza sulle detenute politiche è certamente una forma di pressione psicologica per far scontare il loro attivismo politico, ma assume talvolta anche le sembianze di veri e propri atti di sadismo: perlomeno questo è il senso che la testimone dà delle continue perquisizioni nelle camerate, effettuate senza motivo, delle adunate al freddo, delle umiliazioni cui le prigioniere vengono sottoposte e degli esperimenti medici sui loro corpi”, spiega Ponzani, che prosegue, “La deportazione e la detenzione nei campi di sterminio hanno fatto sì che il senso d’abbandono assumesse tratti devastanti; il lager ha segnato per tutte l’«esperienza del limite», perché non esiste un ordine simbolico nel quale inserire la perdita del carattere di ogni tipo di umanità, spenta e azzerata irrimediabilmente per sempre. La peggior punizione inflitta alle nemiche politiche è passata anzitutto per l’azzeramento della dimensione privata del corpo, spogliato di ogni dignità. […] Il campo non è soltanto un moderno e sofisticato luogo di detenzione fisica e di isolamento dal mondo esterno, ma anche un «non luogo» della memoria, l’inizio dell’azzeramento di ogni condizione umana e sociale, finora conosciuta, dove non c’è più rispetto per la decenza e il pudore”. Per alcune questo azzeramento passa attraverso lo stupro, per tutte significa “affrontare altre forme di sofferenza più sottili, di natura psicologica, attuate volutamente per degradare l’essere umano agli istinti più bassi, in un tragico bollettino di afflizioni e supplizi quotidiani: alla promiscuità nelle baracche, all’assenza di acqua e cibo, ai banali incidenti sul lavoro, si aggiunge la violenza di restare chiuse, con le porte sigillate, all’interno dei capannoni di fabbrica che vengono quotidianamente distrutti dai bombardamenti dell’aviazione anglo-americana”.
“All’interno di quel limbo che è il campo di detenzione non si è dunque assistito solo al deturpamento del proprio corpo violato: il lager ha fatto pure saltare quei codici culturali che la civiltà occidentale ha posto a difesa della maternità, perché alle donne incinte che sono arrivate nel campo è stato imposto di abortire anche in avanzato stato di gravidanza. Altre invece sono state costrette a veder morire i loro figli appena venuti al mondo perché i neonati non sono riusciti a resistere alle condizioni del campo”.
“Il ricordo di quel periodo resta comunque imperniato nell’annichilimento del corpo e della personalità e quindi sulle angherie, le percosse e i maltrattamenti inflitti dal personale di guardia dei campi”, spiega Ponzani, “A queste espressioni di aridità umana quando non di vera e propria follia fanno da contrappunto i gesti di solidarietà tra compagne, come quello di farsi coraggio e di infondersi forza nei momenti di maggiore sconforto. Quando si ha freddo sono le compagne a «scaldare le mani» e a consolare nei momenti d’abbattimento”.
Alcune internate ricevono la possibilità, che a loro appare come un’ancora di salvezza, di lavorare come manodopera forzata nelle industrie belliche del Reich. “Ma dietro questo invito si nasconde un inganno, perché andare a lavorare nelle fabbriche del Reich segnerà soltanto il passaggio da prigioniere a schiave. L’offerta delle autorità militari tedesche nasce infatti da una decisione imposta da necessità puramente organizzative, dettata dall’esigenza di far fronte al prolungarsi inaspettato del conflitto, al conseguente esaurimento della manodopera tedesca e all’utilizzo più efficiente possibile del bacino di forza lavoro prelevato nei campi di prigionia. […] Ma […] le detenute politiche sembrano avere maggiore consapevolezza del fatto che i periodi di tregua e di allentamento della disciplina, rispetto alla vita del campo, siano fenomeni conseguenti all’incapacità delle autorità militari tedesche di gestire e padroneggiare un numero di lavoratori coatti sempre più crescente, e alle difficoltà nel garantire un buon funzionamento di quella macchina bellica tedesca“.