ESISTONO DIRITTI DEGLI ANIMALI?

Un articolo ottimo sulla filosofia antispecista e sul perché gli animali non possono essere soggetti di diritto.

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Due filosofi di estrazione anglosassone, prima l’australiano Peter Singer (1975) e poi l’americano Tom Regan (1983) sono i personaggi più noti che hanno sostenuto la necessità di riconoscere diritti agli animali. Il pensiero di Singer deriva fondamentalmente dalle seguenti premesse:

  1. Il dolore, inteso come qualsiasi tipo di sofferenza fisica o psicologica, è negativo a prescindere da chi lo provi.
  2. Tutti noi non siamo responsabili solo di quello che facciamo, ma anche di quello che avremmo potuto impedire o che abbiamo deciso di non fare.
  3. La specie umana non è l’unica in grado di provare sofferenza o dolore. Ed è innegabile che ciò succede anche a tutti gli animali di specie non umana, molti dei quali sono in grado di provare anche forme di sofferenza che vanno al di là di quella fisica (l’angoscia di una madre separata dai suoi piccoli, la noia dell’essere rinchiusi in una gabbia senza aver…

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Il “cattivo tedesco” e il “bravo italiano” come miti fondanti della narrazione sulla seconda guerra mondiale

Comunicazione di servizio. Sarò impegnata con il preparare l’esame di Storia contemporanea, perciò ancora per un po’ – fino alla fine del mese, presumo – posterò solo articoli tratti dai saggi che sto leggendo, come ho fatto finora con il libro di Michela Ponzani. Mi rendo conto che, per quanto questi argomenti siano affascinanti per me, possono essere noiosi per tutti gli altri. Sopportatemi ancora per un po’ e poi tornerò a scrivere dei miei soliti argomenti (in realtà vorrei farlo già ora, ma non ho proprio tempo).

In ogni modo, il nuovo saggio di cui parlerò è Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale di Filippo Focardi, ricercatore in Storia Contemporanea presso l’Università di Padova. Penso che l’argomento sia interessante anche per il tema del 25 aprile, in cui si commemora appunto la Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista. Il libro, pubblicato nel 2013 per Laterza, indaga in modo approfondito, traendo spunto dalla tesi di Tony Judt, il processo di costruzione di una narrazione “plasmata su due nuclei fondamentali: da un lato, la «rivendicazione universalmente riconosciuta» che attribuiva alla Germania e ai tedeschi la colpa esclusiva per «la guerra, le sue sofferenze e i suoi crimini»; dall’altro, l’esaltazione in ogni nazione del «mito della Resistenza» come lotta dell’intero popolo contro l’oppressore tedesco. Un forte nesso legava i due capisaldi di questa memoria europea della guerra: alla colpevolezza dei tedeschi […] corrispondeva la presunta innocenza delle altre nazioni, che si era manifestata in ciascuna di esse attraverso la corale contrapposizione alla Germania nazista”, come spiega Focardi nell’introduzione.

Si tratta di una narrazione che ha un fondamento nei fatti, ma che serve anche “a far passare in secondo piano o a giustificare azioni violente commesse anche da parte dei vincitori, come ad esempio le espulsioni di massa che alla fine della guerra avevano ridisegnato il volto dell’Europa centrale con milioni di tedeschi e centinaia di migliaia di ungheresi o di ucraini cacciati con la forza dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dai Balcani. Allo stesso modo il «mito della Resistenza» nazionale contro il tedesco era servito, a Est come a Ovest, a oscurare la realtà dei collaborazionismi ovunque sorti a supporto dell’occupazione nazista e la dimensione di brutale guerra civile che la lotta aveva assunto all’interno dei diversi paesi”, argomenta Focardi, riprendendo la tesi di Judt, e prosegue, “Il mito dell’unanimismo patriottico antigermanico era stato un comodo paravento soprattutto per coloro – la maggioranza dei cittadini – i quali in realtà si erano rassegnati a convivere col sistema di occupazione nazista; ma il mito era stato accettato anche dai «veri resistenti» sia per fini di legittimazione politica (i comunisti), sia in nome dell’esigenza più generale di ristabilire un minimo di coesione sociale e ripristinare l’autorità e la legittimità dello Stato dopo gli scombussolamenti della guerra civile”.

Il caso dell’Italia, dove pure questa costruzione della memoria collettiva della Seconda Guerra Mondiale è avvenuta, si differenzia dal resto dell’Europa perché “il paese vantava l’indiscussa primogenitura del fascismo e fin dalla metà degli anni trenta – dall’aggressione dell’Etiopia in poi – aveva affiancato la Germania nazista, operando sistematicamente alla demolizione dell’ordine europeo sancito a Versailles dopo la prima guerra mondiale in vista di una radicale ridefinizione dei rapporti di forza internazionali“, sostiene Focardi, ricordando l’obiettivo di Mussolini di costruire per l’Italia un futuro da grande potenza e un «nuovo ordine mediterraneo», in vista del quale aveva guidato il Paese in uno sforzo bellico continuo dal 1935 in poi, con l’aggressione all’Etiopia (1935-1936), l’intervento nella guerra civile spagnola (1936-1939) e l’occupazione dell’Albania (aprile 1939), e soprattutto la discesa in campo a fianco della Germania nel secondo conflitto mondiale, con l’aggressione alla Francia (21-24 giugno 1940), alla Grecia e alla Jugoslavia (aprile 1941), la partecipazione all’attacco tedesco contro l’URSS e la guerra contro gli inglesi nel Maghreb. Dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) il governo Badoglio aveva continuato per 45 giorni a combattere al fianco dei tedeschi, pur trattando sottobanco la resa.
Nel caso dell’Italia, quindi, “non si trattava solo di affrontare una resa dei conti col fenomeno del collaborazionismo e della guerra civile, […] ma di rendere ragione di un regime dittatoriale ventennale, […] che si era associato alla Germania nazista per sovvertire l’ordine europeo rendendosi responsabile di azioni eversive sul piano internazionale culminate nella partecipazione alla seconda guerra mondiale come alleato fondamentale del Terzo Reich e del Giappone, protagonista per oltre tre anni – dal giugno 1940 al settembre 1943 – di una guerra di aggressione contro le potenze democratiche e di numerose occupazioni di territori di nazioni inermi, dove – specie nei Balcani – si era macchiato di gravi crimini contro le popolazioni civili”, spiega Focardi.

La costruzione di una memoria collettiva imperniata sulla colpevolizzazione dei tedeschi e sul «mito della Resistenza» passa attraverso la raffigurazione del «cattivo tedesco», uno stereotipo che si mantiene nonostante “l’impegno tenace degli «esponenti migliori» dell’antifascismo a distinguere fra popolo tedesco e regime nazista”, nelle parole di Focardi, che ricorda soprattutto lo sforzo di Enzo Collotti, autorevole studioso italiano della Germania contemporanea, “per riscoprire e far conoscere «l’altra Germania», quella democratica e antinazista, perseguitata dal regime in camicia bruna”. In ogni caso, a parte queste eccezioni, “al cupo ritratto del soldato germanico quale disciplinato e sanguinario combattente, implacabile e sadico oppressore di inermi, fu contrapposto il ritratto antitetico e tipizzato del soldato italiano intimamente avverso alla guerra, recalcitrante a compiere atti di violenza e di sopraffazione, pronto a solidarizzare e a portare soccorso alle popolazioni indifese, comprese quella dei territori occupati dal fascismo. E la stessa immagine speculare fu applicata alla descrizione dei due regimi e dei due popoli, il tedesco e l’italiano. […] La raffigurazione intrecciata del «cattivo tedesco» e del «bravo italiano» emerge come il canone di lettura principale attraverso cui è stata modellata la memoria nazionale della guerra non solo sul piano dell’elaborazione prodotta dalle élites politiche e culturali, ma anche su quello della cultura popolare e di massa legata ai rotocalchi, al cinema, alla televisione o alle canzoni”, spiega Focardi.

Questa contrapposizione è, secondo lo storico, l’unico tratto unificante fra le molteplici narrazioni legate alle diverse esperienze del conflitto (quella dei partigiani e quella dei militanti della RSI, quella degli IMI e quella dei soldati italiani, a sua volta diversa fra chi ha combattuto in Russia e chi in Africa settentrionale, quella delle donne e quella dei prigionieri degli Alleati, e così via). Focardi individua l’origine di questa contrapposizione negli anni compresi fra il 1943 e il 1947, “sulla base di stringenti esigenze politiche condivise dal composito fronte antifascista, sia dalla corona e dal governo Badoglio sia dalle diverse forze legate ai partiti del CLN, che utilizzarono a fini di autolegittimazione politica, di mobilitazione bellica e soprattutto di salvaguardia degli interessi nazionali la distinzione fra Italia e Germania, cui aveva già intensamente fatto ricorso fin dall’inizio del conflitto la propaganda alleata. […] Preoccupazione fondamentale e legittima dell’establishment monarchico e delle élites politiche antifasciste fu di evitare una pace punitiva per il paese uscito sconfitto dalla guerra. […] Tutti i governi di unità nazionale, nati dall’intesa fra CLN e monarchia nella primavera 1944, posero al centro della propria azione la rivendicazione dei meriti dell’Italia nella guerra contro la Germania, dapprima per ottenere il superamento dell’ambiguo status di nazione cobelligerante e il riconoscimento di un’alleanza paritaria con le Nazioni Unite poi, fallito tale tentativo, per scongiurare comunque un trattamento draconiano da parte dei vincitori”.

“Finì così per essere generato un «racconto egemonico» che taceva, minimizzava o negava il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e le responsabilità del paese nella guerra fascista e nei suoi numerosi crimini“, sostiene Focardi, aggiungendo che in questo modo si posero “le basi di un’autocoscienza collettiva fondata sul paragone costante fra il caso italiano e quello tedesco, e sulla conseguente relativizzazione delle colpe italiane“.
Dietro lo stereotipo c’era un consistente nucleo di verità“, puntualizza Focardi, “E tuttavia lo stereotipo servì a coprire l’altra faccia della medaglia, non meno rilevante ma assai più incresciosa, ovvero l’adesione di non pochi italiani alla «guerra imperialistica» del fascismo; i numerosi crimini di guerra commessi nei territori occupati dalle camicie nere e dal regio esercito contro partigiani e civili; il coinvolgimento nella persecuzione germanica degli ebrei non solo da parte di Salò dopo il 1943 ma anche in precedenza da parte delle forze italiane in Russia e nei Balcani, doveva avevano sì agito tanti «salvatori di ebrei», ma anche non pochi italiani «mala gente», pronti ad approfittarsi dei perseguitati e persino a consegnarli all’alleato carnefice”.

All’oblio degli aspetti più negativi delle vicende italiane nella Seconda Guerra Mondiale “concorsero una pluralità di attori spinti da motivazioni diverse: dapprima la propaganda alleata, intenzionata a provocare il crollo interno della dittatura fascista e l’abbandono italiano della guerra dell’Asse; poi la monarchia assieme agli apparati istituzionali delle forze armate e della diplomazia, che utilizzarono dopo l’8 settembre la «carta antitedesca» certamente per il bene del paese ma anche per separare le proprie sorti (anche personali, a cominciare da Badoglio) da quelle dell’Italia monarchico-fascista sconfitta rovinosamente; quindi, con tutt’altra credibilità morale e politica, le forze antifasciste e della Resistenza, impegnate in prima linea in una lotta durissima contro l’occupante germanico e l”antico’ nemico in camicia nera, e anch’esse preoccupate – una volta giunte a responsabilità di governo – di salvaguardare il destino del paese e la loro stessa legittimazione politica a rischio di essere scossa da una eventuale «pace mutilata»  foriera di un’ondata di nazionalismo reazionario; infine, la destra qualunquista (auto)indulgente col passato fascista, concorde sulla necessità di separare le responsabilità dell’Italia da quelle dell’ex alleato tedesco per evitare una pace punitiva e allo stesso tempo propensa, al pari del re e di Badoglio, a scaricare su Mussolini e sui gerarchi il peso di ogni colpa, identificata principalmente nell’aver legato in modo inopinato l’Italia al destino del Terzo Reich”, argomenta Focardi.

Questa è la tesi. Lo svolgimento dell’argomentazione sarà trattato post dopo post in questi giorni.

Le lotte per l’emancipazione femminile all’alba della Repubblica italiana

E così siamo arrivati all’ultima puntata di questa lunga serie di post (qui la penultima puntata), e con essa all’ultimo capitolo di Guerra alle Donne, significativamente intitolato “Tra le macerie della civiltà”, che tratta dell’impegno politico delle donne all’alba della Repubblica italiana, un impegno vissuto come la naturale e doverosa prosecuzione della lotta politica della Resistenza, che come abbiamo visto era volta anche a costruire un nuovo ordine dove realizzare la parità fra i sessi. Per me parlare di questo è importantissimo, visto che ancora oggi la maggioranza delle persone è convinta che il femminismo abbia avuto solo due “picchi” principali, nelle mobilitazioni delle suffragette nella Belle Époque e negli Anni Settanta. E nel mezzo? Per quanto riguarda l’Italia (ma il fenomeno è comune a tutti i movimenti femministi della prima ondata in Europa), durante la Prima Guerra Mondiale si ebbe una battuta d’arresto, com’è ovvio, mentre dopo fu il fascismo a reprimere il processo d’emancipazione, dato che nell’ideologia fascista la donna aveva il solo ruolo di moglie sottomessa, angelo del focolare e madre prolifica pronta a dare figli alla Patria.

La lotta per l’emancipazione si saldò quindi con la lotta antifascista. Nelle parole di Ponzani, “l’insurrezione armata non segna affatto la fine ma bensì l’inizio di un percorso di mutamento nelle relazioni tra i sessi e di rivendicazione di un proprio spazio di visibilità e di autonomia nella sfera pubblica. Lo stesso inserimento nella vita associativa femminile del dopoguerra – partitica, sindacale o di genere – rappresenterà per molte il naturale prolungamento di una militanza politica interpretata come irreversibile […] [in cui] non è raro rintracciare quella stessa sofferenza interiore, quella smania di cambiamento e di aspirazione alla libertà, che hanno segnato gli anni della clandestinità. Le donne incominciano a combattere tutte le discriminazioni di cui sono oggetto: nella scuola, nelle professioni, nei rapporti di genere“.

Il primo obiettivo che si pongono le associazioni femminili (in prima linea l’UDI, Unione Donne Italiane) è quello dell’«elevazione culturale della donna», poiché la partecipazione delle donne alla vita culturale è una premessa indispensabile dell’emancipazione. Si lotta quindi contro il pregiudizio “che considera la «mente femminile» incompatibile con la cultura scientifica”, in quanto la donna sarebbe “irrazionale, votata al sentimentalismo e incapace di pensare”, scrive Ponzani. Ada Alessandrini dell’UDI scrive:

Nella scuola: vi sono moltissime maestre, ma pochissime professoresse universitarie. Negli uffici: quasi tutte le donne sono le segretarie e le dattilografe ma nessuna donna nei quadri dirigenti della burocrazia italiana; eccezionalmente qualche capo di divisione, nessuna donna direttore generale. È vietato l’accesso per la donna italiana alla magistratura e alla diplomazia. Nelle officine e nei campi: la donna fa spesso lavori più gravosi e più delicati, per cui riscuote un salario inferiore a quello dell’uomo. [Esiste ancora,] il supersfruttamento del lavoro a domicilio con la scusa di mantenere la donna «vicino al focolare domestico». Nella politica: spesso nel nostro paese le donne sono sollecitate a prendere una posizione politica negativa dagli uomini non ancora emancipati dal loro «complesso di superiorità». Molta «carità pelosa» verso le donne per accaparrarsi i loro voti in periodo elettorale, poca autonomia ai movimenti politici femminili e scarsa rappresentatività negli organismi politici dirigenti.

Alcune cose sono migliorate da allora, ma altri problemi seppure con altre forme sono rimasti, come il divario salariale o il soffitto di cristallo. In ogni caso, “I desideri di emancipazione sono però condannati a non realizzarsi pienamente. La Resistenza e l’attività politica nella guerra partigiana hanno certamente sconvolto i tradizionali spazi simbolici di divisione sessuale dei ruoli, ma i cambiamenti sono stati di breve durata perché la liberazione non ha portato di per sé una scontata e automatica modernizzazione dei costumi, […] per cui passato il tempo dei «furori» le donne vedono ricostituirsi tutti gli assetti più arcaici della società”.

Per molte ex partigiane la delusione “per la mancata realizzazione di quei sogni di rinnovamento nei rapporti tra i sessi e sul piano culturale” è forte, e alcune di loro sono preoccupate e indignate per la rinascita del fascismo. “Sull’eredità della Resistenza continua difatti a pesare l’ombra del neofascismo, l’aver visto ricostituirsi e rinascere dal passato un nemico che si credeva sconfitto per sempre”, afferma Ponzani. Le ex partigiane (ma non solo) si domandano con angoscia e abbattimento dove abbiano sbagliato. “Sono dunque le donne a interrogarsi per prime sui reali effetti di mutamento apportati alla società italiana dalla guerra che si è combattuta; sono loro a riflettere sui limiti della cultura e della mentalità del paese in cui si ritrovano a vivere dopo tante angosce e privazioni”, spiega Ponzani, un paese in cui non c’è stata l’attesa “accelerazione nel processo di emancipazione nella mentalità della società italiana”, né la trasformazione dei “vecchi archetipi culturali”.

“Dal punto di vista normativo e sociale (nonostante il diritto al voto), la conquista dei diritti politici non si trasforma automaticamente in una parità nei diritti civili e di famiglia. La divisione sessuale del lavoro resta invariata, il predominio maschile nella società, nel diritto, nella politica e persino nei linguaggi assume un significato ben chiaro: per le donne il 1945 ha segnato una rivoluzione rimasta a metà. Il maggior segno di rottura con il passato è certamente dato dal diritto di voto […] e susseguentemente dall’approvazione dell’Art. 3 della Costituzione per cui non solo si stabilisce il principio dell’uguaglianza formale tra i sessi […] e la fine delle discriminazioni dello Stato totalitario, ma anche il dettame dell’uguaglianza sostanziale per cui «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»“.

“Ma nonostante ciò la mansione pubblica femminile del dopoguerra viene da subito circoscritta all’assistenza dei reduci […], dei profughi e degli orfani al fine di «partecipare attivamente alla ricostruzione morale e materiale del paese». A contrapporsi alla conquista dei diritti politici delle donne è inoltre lo stesso testo costituzionale nella parte dedicata ai rapporti etico-sociali e al diritto di famiglia. Sebbene l’Art. 29 stabilisca «l’uguaglianza formale e giuridica dei coniugi» e l’Art. 30 preveda la parità formale tra uomo e donna nell’educazione dei figli […], fortissimi limiti vengono posti al diritto di ricerca della paternità, perché la stessa Costituzione repubblicana rinvia al codice civile del 1942 e a quello penale del 1930. In altri termini, ciò significa che la Costituzione non accoglie «l’affermazione dei diritti individuali delle donne all’interno della famiglia» e ristabilisce «di fatto l’inferiorità della donna nella sfera privata»”, osserva Ponzani, “Si conferma inoltre una visione cattolica della famiglia basata sull’indissolubilità del matrimonio e intesa come «società organica e naturale, antecedente lo Stato e quindi da esso autonoma»; una famiglia all’interno della quale non può certo essere accolta «l’affermazione dei diritti individuali delle donne», indiscutibilmente collocate nella sfera domestica in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.

Così l’UDI si batte contro la propaganda cattolica, particolarmente attiva nelle realtà più arretrate del Sud d’Italia,  e successivamente perché alle donne “sia garantito l’accesso ai più alti gradi professionali e […] adeguate politiche di previdenza sociale a tutela della maternità; che l’assistenza all’infanzia sia libera, gratuita e soprattutto sottratta alle organizzazioni parrocchiali e vaticane e che lo Stato s’impegni a ridurre la fame, l’alto tasso di mortalità infantile e la delinquenza minorile“, mentre il movimento sindacale femminile inizia “una forte battaglia per il riconoscimento di alcuni diritti come la pensione alle casalinghe, la parità salariale, la tutela del lavoro domestico, il riconoscimento del lavoro alle donne contadine […], l’istituzione di asili nido e di strutture per la tutela dell’infanzia fino alle iniziative per il nuovo diritto di famiglia e per il divorzio“. Ci vorranno circa tre decenni per ottenere alcuni di questi obiettivi, e altri non sono ancora stati raggiunti.

Anche le parlamentari si impegnano a presentare proposte di legge, come quella del 1948 sulla Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri che prevede il divieto di licenziamento per le neomamme, ma anche «tutela igienica, economica e sanitaria», e un’altra che prevede sostegno alle madri lavoratrici e assistenza ai figli piccoli durante le ore di lavoro. L’obiettivo è superare la legislazione fascista “affinché non si scinda il problema della «tutela fisica» da quello della «tutela economica»”.

“Le donne hanno dovuto affrontare anche altri problemi relativi alla mentalità del tempo in cui vivono. Ciò che hanno dovuto fronteggiare maggiormente è la violenta ostilità e il giudizio negativo di altre donne, che […] con le loro critiche rivelano non solo un’arretratezza di mentalità e di costumi, tipica dell’Italia postbellica, ma anche la persistenza di quello stato di anomia sociale e di disimpegno dalla vita politica nazionale“, spiega Ponzani.

Gli internati militari italiani, le donne tedesche e altre storie di umanità in tempo di guerra

Questo post rappresenta il proseguimento di Le “amanti del nemico”: collaborazioniste e donne innamorate, perciò non mi dilungo a introdurlo.

Un altro oggetto di rimozione dalla memoria collettiva dell’Italia del dopoguerra sono le storie d’amore fra i militari italiani internati in Germania e le donne tedesche, “piccoli, grandi incontri di vita, relazioni umane e sociali stabilite con le popolazioni civili di villaggi, paesi e città di una Germania travolta e distrutta dal conflitto, con le quali gli Imi sono venuti in contatto a seguito del passaggio da prigionieri a «lavoratori civilizzati»”, nelle parole di Ponzani, “Nodo storico intricatissimo, l’Italia del dopoguerra ha bisogno di dimenticare per sempre questa dimensione umana del conflitto perché troppo discordante col topos narrativo del «patriota» in armi, chiamato a rappresentare l’onore della nuova Italia democratica e antifascista attraverso la resistenza all’«invasore tedesco»; la lotta al «barbaro teutonico» passa anche per il rifiuto della bellezza e dell’avvenenza delle «donne del nemico» e per la rimozione assoluta di un soldato «perdente» com’è appunto l’ex internato militare“. Alcuni “militari italiani desiderano tener fede al proprio onore di soldati in segno di riconoscenza per quelle donne che durante la prigionia hanno rappresentato l’unica ancora di salvezza da un mondo di distruzione” e chiedono di potersi ricongiungere con loro e sposarle, per amore, ma anche per “l’obbligo morale di non tradire la fiducia di chi, nel momento di massima disperazione, ha permesso di sopravvivere“.

“Nell’universo semantico dell’internato, le donne hanno infatti rappresentato la restituzione di una dimensione umana di vita, autonoma e complessa, contro la brutale riduzione dell’essere umano alla sfera della fame e della dissoluzione del corpo; la donna è stata un momento di sublimazione del proprio misero vivere al pari delle rare possibilità di rivolta contro i tedeschi, della possibilità di esprimersi con la poesia, con la pittura o il canto e anche di scrivere lettere o diari, divenuti nei giorni del lager antidoto agli effetti della distanza e allo straniamento dalla realtà. Non sempre le famiglie di origine di questi soldati riescono a comprenderlo. Può allora accadere che la moglie di un ex internato impedisca di ricevere notizie dall’amante indesiderata”, spiega Ponzani.

“La fine della guerra, la liberazione dal lager e il momento del rimpatrio, si caricano quindi di una particolare pressione emotiva che nel ricongiungimento con l’«amata tedesca» fa intravedere la possibilità di salvaguardare quel poco dei ricordi dell’esperienza di cui si è stati protagonisti. In molti altri casi, però, può accadere che siano le stesse compagne di quei giorni a volere il distacco, una volta finita la guerra. Si tratta, in questi casi, di una scelta d’emancipazione incomprensibile per uomini abituati a concepire la donna secondo la retorica fascista della moglie silente votata al sacrificio”, commenta la storica.

Alcune di queste relazioni tuttavia si mantengono, sopravvivendo alle difficoltà degli ex soldati tedeschi nell’integrarsi in Germania, sia per problemi linguistici sia perché «lì eravamo italiani, cioè traditori». Ponzani conclude il paragrafo con una riflessione su come queste esperienze “permettono di fuoriuscire dall’appiattimento semantico del conflitto come esclusivo momento di disumanizzazione, di crudeltà e di contrapposizione tra nemici ideologici: perché i conflitti sono fatti di esseri umani che non di rado possono entrare in contatto l’un l’altro, anche attraverso l’empatia per una comune condizione di sofferenza umana. […] La scoperta della «bontà» e della natura umana del nemico (sebbene pur sempre in conseguenza di un’esperienza individuale) è un tratto distintivo delle memorie di guerra delle donne”.

L’umanità del nemico, ricordano con commozione le testimoni, si rivela attraverso i piccoli gesti, si scopre osservando i volti dei soldati tedeschi, giovani malinconici e sfiniti, ma anche in gesti più significativi, come “l’aiuto prestato alle vittime del bombardamento alleato che colpisce Massa d’Albe una mattina d’inverno del ’44”, che vede i tedeschi che confluiscono nella cittadina e collaborano con i sopravvissuti nel portare aiuto ai feriti e nel sistemare i morti. Allo stesso modo anche le donne italiane talvolta hanno l’occasione di prestare aiuto ai  «militari tedeschi dispersi e feriti, impossibilitati a seguire i loro reparti in ritirata o decisi a non farlo», nelle parole di Rosanna C, dando loro abiti civili o approntando ospedali d’emergenza per i feriti.
“Il problema, però, è che le comunità d’origine non possono capire fino in fondo la complessità di questa dimensione esistenziale della guerra. Ciò vale in special modo per le donne, la cui sopravvivenza è stata garantita anche dall’affetto e dalla protezione di quei soldati che, in qualche modo, hanno permesso di far fronte alla solitudine, con i mariti partiti in guerra chissà da quanto e che si temeva non facessero ritorno. L’onore e la rispettabilità della donna sono gli elementi chiamati in causa a ricostruire una  «verginità» alla patria fascista: non c’è dunque spazio alcuno per la dimensione umana di caos e distruzione che la guerra ha portato nella vita di ogni singolo individuo“, afferma Ponzani.

“Dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli a mariti e a fidanzati assenti perché al fronte: in queste condizioni, la sessualità femminile non può che essere consumata in maniera  «decente», visto che è la donna a simboleggiare la rigenerazione della nazione. Per questo gli amori di guerra che le italiane hanno in quel periodo con soldati tedeschi, ispirati da sentimenti sinceri perché maturati in mezzo a sacrifici e pericoli, sono un argomento destinato a rimanere celato dalla narrazione ufficiale della guerra e dalle rappresentazioni postbelliche del conflitto”. Queste parole conclusive di Ponzani riassumono le ragioni dell’esclusione di queste storie della Storia.

D’altronde si tratta di ragioni pienamente valide nelle circostanze storiche del dopoguerra, dove una nazione distrutta doveva riconoscersi in una narrazione che legittimasse l’assetto che si era costituito nel biennio ’43-’45.

Le “amanti del nemico”: collaborazioniste e donne innamorate

Con questo post, che tratta del nono capitolo del saggio di Michela Ponzani Guerra alle Donne, siamo giunti alla terzultima puntata (qui la precedente) di questa serie. In questo capitolo Ponzani tratta delle donne che furono accusate, nei processi sommari che si tennero subito dopo la fine della guerra, di collaborazionismo, analizzando in primo luogo il clima in cui maturarono quei processi, volti a “estirpare dalla società italiana il «male» del fascismo”, compiuti nel nome di quell’etica della convinzione che aveva spinto i giovani antifascisti a prendere le armi contro il regime. “Le azioni di vendetta sono vissute […] come necessarie, quasi come se si trattasse di un lavacro nazionale da cui attingere una rinascita per un paese troppo a lungo martoriato dalla guerra”, scrive Ponzani, che parla anche di “espiazione collettiva“.
Al desiderio di vendetta contro i fascisti si intrecciano vendette personali e anche la ricerca di vantaggi personali, come vedremo. D’altronde, “Per giustificare un’accusa di «collaborazionismo», nei tormentati giorni della liberazione, basterà un semplice sospetto di amicizia o un comportamento eccessivamente libero con le truppe tedesche”, spiega Ponzani, che più oltre prosegue, “L’esplosione della collera popolare e i casi di giustizia sommaria hanno però a che fare soprattutto con la scarsa preparazione politica della base del partigianato. Non è un caso che […] sia proprio il comandante delle formazioni partigiane di Ravenna, Arrigo Boldrini, a richiamare l’attenzione sulla carenza di disciplina e su quello spirito di contestazione dell’autorità, che anima i giovani partigiani nel nome di una pratica politica ispirata a una più larga e spontanea partecipazione della base […] «Sono degli operai, sono dei contadini privi di istruzione, sono solamente armati di una grande volontà e coscienza»”, sono queste le parole del comandante Boldrini.

Ma ridurre questa fase di transizione ai soli linciaggi ad opera della folla sarebbe riduttivo. “Eppure, in assenza del diritto e di riferimenti giuridici precisi, l’uso della giustizia può e deve essere un elemento fortemente educativo tra le formazioni partigiane che affrontano il delicato passaggio della transizione postinsurrezionale. Anche se di breve durata, è proprio il funzionamento dei tribunali di divisione o di brigata, predisposti su ordine del Corpo volontari della libertà, nelle singole bande e formazioni partigiane, a permettere di gestire al meglio quei territori ove la presenza dei fascisti sbandati è ancora forte. Sebbene non sia sempre possibile applicare i decreti emessi dal Clnai né si riesca a controllare il numero delle sentenze di morte, specie là dove l’odio profondo contro il nemico fascista mostra di avere radici nelle violenze e nelle brutalità commesse dai repubblichini ai danni della popolazione civile, quegli organi dimostrano di essere gli unici strumenti in quel momento realmente per «bloccare indiscriminate e individuali azioni di giustizia privata»”.

“I frequenti episodi di violenza che insanguinano le regioni del Nord nella primavera-estate del 1945 hanno del resto una loro spiegazione logica nel fatto che molti ex fascisti sono tornati dall’Italia settentrionale: considerati elementi a dir poco indesiderati dalle comunità d’origine, il popolo viene chiamato a «chiudere i conti» alla sua maniera, attraverso vendette e «punizioni» esemplari, attuate con esecuzioni in piazza, fucilazioni e condanne a morte senza alcuna sentenza“. Nel solo periodo compreso fra l’8 e il 31 maggio 1945, in Piemonte, si verificano 3237 fra omicidi, furti, rapine e rapimenti di persona.

“Il fenomeno dell’epurazione ha comunque in sé una fortissima carica simbolica, che non può essere considerata nei soli termini giuridici di applicazione delle norme e dei codici o delle culture di guerra degli attori chiamati a «sanzionare» la condotta dei fascisti nel periodo postbellico; le pratiche punitive, giudiziari ed extragiudiziarie […] sono infatti il risultato di una commistione di diversi fattori, che solo in parte possono essere confinati nell’ambito del processo penale e della condanna legale.
Nel caso delle donne il giudizio per «collaborazionismo femminile» è un vero e proprio castigo di ordine morale prima ancora che giuridico, che consente di esplorare una vasta anatomia di atteggiamenti e personalità affatto riconducibili alle immagini stereotipate dell’«ausiliaria» e dell’«amante dei tedeschi». Dietro alla condanna delle «nemiche politiche», fortemente indirizzata contro quelle donne che hanno sovvertito i ruoli di genere, alle quali si attribuiscono caratteristiche non femminili e non umane, si nasconde il tentativo di rifondare la nazione attraverso la condanna simbolico-morale del fascismo, dal forte intento pedagogico. […] Condanne e assoluzioni hanno infatti il senso simbolico dell’esclusione o della reintegrazione nella comunità nazionale che non concede sconti alla definizione del canone di donna italiana. Il «tipo criminale di donna» che si definisce nei capi d’accusa fa delle collaborazioniste l’emblema di tutti i disvalori della nazione: esse sono donne di facili costumi che sanno adescare gli uomini con le loro abilità di seduttrici”.

I capi d’accusa “muovono da un giudizio morale relativo alla sfera sessuale della donna”: le collaborazioniste, vere o presunte, sono definite donne leggere, di dubbia moralità, senza scrupoli, amanti di lusso. Ma non ci si limita allo slut-shaming: “Il loro aspetto fisico perde i tratti della dolcezza femminile per assumere quelli della bestia, secondo il vecchio tabù che fatica a riconoscere alla donna la capacità e la volontà di uccidere e di fare del male”, spiega Ponzani, “le donne accusate di «collaborazionismo» vestono con indumenti non femminili, hanno portato la divisa da uomo e usato le armi, producendo un sovvertimento dello stereotipo di genere; per questo, al di là del reato contestato, esse sono capaci di«azioni in contrasto con le leggi del [loro] sesso» oppure «precipitate nel più triste pervertimento della loro stessa natura di donna commettendo atti che costituiscono non solo la colpa penale, ma l’ignominia e la vergogna della loro vita». La loro è una condotta deviata, non onorevole, fatta di gesti lascivi, sadici e «contro natura», con evidente allusione alla sodomia”. Il pregiudizio sessista sulla morale si sovrappone al giudizio strettamente giuridico influenzandolo, ed è impossibile quantificare il numero delle donne condannate ingiustamente per questo.

“Nella punizione delle donne fasciste agiscono dunque quelle che Jon Elster ha efficacemente definito «meta motivazioni» della giustizia di transizione, connotate da un intreccio irrisolvibile tra «ragione, emozioni e interessi»; sono questi fenomeni a regolare la punizione dopo il crollo di una dittatura e l’inizio del passaggio a nuovi regimi democratici. Ciò non significa, tuttavia, che nei processi d’epurazione siano coinvolte soltanto delle innocenti o che i capi d’imputazione non siano reali“, precisa Ponzani, “nel caso di Roma la Corte d’assise straordinaria si trova a giudicare un mondo fatto di piccoli truffatori, delinquenti divenuti delatori, spie al soldo dei tedeschi, collaboratori e confidenti delle questure che hanno realmente concorso alla cattura di soldati sbandati, renitenti alla leva, esponenti antifascisti e famiglie ebree perseguitate dalle leggi razziali. […] Le vicende delle «collaborazioniste» rivelano un mondo sordido, sotterraneo, fatto di ricatti incrociati, di vendette personali, di castighi morali: si accusa allora l’affittuaria di «collaborazionismo» perché si rivuole per sé un appartamento o perché lo si è abusivamente occupato e non lo si vuole restituire alla proprietaria; i mariti o gli ex amanti possono denunciare le mogli di «collaborazione col tedesco» nel tentativo di vendicarsi di un loro tradimento o dell’abbandono del tetto coniugale”.

Spesso le donne accusate di collaborazionismo sono punite con il linciaggio o la rapatura dei capelli in piazza, altrimenti «i loro capi venivano dipinti di rosso e così conciate venivano portate in giro per le vie della città», nelle parole di Giovanna P. Questi sfregi “hanno nell’eliminazione violenta del simbolo della femminilità un tratto distintivo del tipico rituale «maschile» di guerra; si tratta però anche di una forma di punizione esemplare, inflitta a quelle donne che hanno «tradito» la propria comunità nazionale di origine, divenendo le «amanti del tedesco» o collaborando con le truppe fasciste, che è anche parte di una società in cui la violenza e la brutalizzazione denotano quanto forte sia stata l’eredità del conflitto e della guerra civile”.

Ma oltre alle collaborazioniste vere e proprie, ci sono state anche donne italiane che si sono davvero innamorate e hanno avuto relazioni e figli dai soldati tedeschi. Le loro storie sono state a lungo occultate perché si sono privilegiate narrazioni volte a “descrivere l’odio che si prova verso il «tedesco occupante», funzionale a chiudere i conti col passato e a dimenticare di aver condotto una guerra comune con la Germania nazista. Il racconto delle relazioni amorose, dei rapporti d’amicizia, dei matrimoni «misti» fra tedeschi e donne italiane e dei figli che ne nacquero sono esperienze che […], permettono di fuoriuscire dal canone patriottico-risorgimentale della donna partigiana, dalla rappresentazione mitica e stereotipata dell’eroina/guerriera in lotta contro il nazismo, chiamata dall’iconografia monumentale della Resistenza a rappresentare simbolicamente la rinascita dell’Italia democratica e antifascista”.

C’è anche l’elemento del pudore a condizionare il silenzio su queste storie: l‘idea che, sfuggendo al controllo sociale, le ragazze intreccino relazioni spontanee con i giovani soldati tedeschi cozza contro l’idea di donna casta e pura molto radicata nella mentalità dell’epoca. “Ben al di là del cliché delle «collaborazioniste», di donne cioè che avevano relazioni sentimentali con militari tedeschi solo perché facenti parte dei reparti ausiliari della RSI o perché «spie dei nazisti», i racconti di guerra superano […] le narrazioni ufficiali fondate sul senso di rispettabilità e di decoro della donna italiana, modellate nella contrapposizione con il comportamento amichevole tenuto dalle «traditrici» della comunità nazionale“.

Ci sono anche relazioni che iniziano “per necessità di sostentamento economico e di riparazione a situazioni sociali di povertà o d’indigenza. In altre parole non sono pochi gli italiani che hanno sperato di sopravvivere alla miseria dando le proprie figlie in mogli a cittadini di un paese ritenuto più ricco, industrializzato e quindi socialmente e culturalmente evoluto qual era la Germania degli anni Trenta e Quaranta”, aggiunge Ponzani, che poi continua, “Dietro alla celebrazione di questi «matrimoni misti» si celava infatti il tentativo di porre rimedio a un senso di rispettabilità sociale compromesso, perché violato da relazioni considerate scandalose, in quanto intrattenute al di fuori del matrimonio“.

E ci sono poi disertori e disertrici, tedeschi e austriaci, che hanno prestato aiuto alla Resistenza “in termini militari e di intelligence”. Lo riconoscerà il ministero della Guerra della neonata Repubblica italiana, che permetterà a questi uomini di tornare in patria e di essere liberati dai campi di prigionia alleati, purché la loro collaborazione sia convalidata da tre testimoni. Michela Ponzani ricorda le storie di Jakob Maschein, che trattò la resa di Forte dei Ratti fra il Gap di Genova e i tedeschi, evitando spargimenti di sangue, di Alfred Heineke, che ha fornito ai partigiani genovesi documenti utili per sfuggire alle retate, e di Enrica Knapp, impiegata alle poste che ha distrutto le lettere dei delatori in cui venivano denunciati i partigiani.

FINE PRIMA PARTE – SEGUE

Gli stupri delle truppe coloniali fra mito e realtà

Nel capitolo precedente di questa serie di post che copre il libro di Michela Ponzani Guerra alle Donne abbiamo parlato degli stupri di massa compiuti dalle truppe tedesche durante l’occupazione del territorio italiano, e in quello ancora prima degli stupri compiuti dai fascisti sulle partigiane, quindi di due diverse strategie del terrore, l’una nell’ambito della «guerra ai civili» e l’altra nell’ambito della «guerra civile», cioè contro il nemico politico. C’è tuttavia un altro tipo di stupro, a cui la storica ha dedicato l’ottavo capitolo del proprio saggio, intitolato emblematicamente “Marocchinate”.

Si tratta degli stupri compiuti dalle truppe alleate, particolarmente sconvolgenti e dolorosi per le aspettative gioiose che la popolazione aveva nei confronti dei liberatori, quelli che distribuivano viveri alla popolazione (un’immagine frequente, anche se, ricorda Ponzani, “più che corrispondere a un reale e sincero senso di solidarietà, [era] da imputare alle operazioni di una propaganda che vuole mostrare l’opulenza e quindi la forza e la superiorità del vincitore sulle condizioni di fame e miseria del vinto”). “Il passaggio delle truppe alleate porta ovunque spensieratezza e anche la possibilità di godere di divertimenti e di un po’ di tempo libero, fino a quel momento inimmaginabili”, ricorda Ponzani, “Le donne tornano a divertirsi anche se con uomini stranieri, generando non poco fastidio nei padri e nei mariti che si sentono doppiamente sconfitti per aver perduto contemporaneamente la guerra, il rispetto e la considerazione delle loro donne. […] [I soldati americani hanno] riportato una leggerezza nel vivere che nella memoria si lega a doppio filo con la possibilità di recuperare un po’ della propria gioventù; rari momenti di felicità che si sono perduti con la guerra”.

Ma non per tutte le ragazze l’arrivo degli alleati significa la possibilità di ricominciare lentamente la vita normale. Molte testimoni ricordano i “«marocchini» di cui si sente tanto parlare. Si tratta, nello specifico, dei Goumiers, i soldati coloniali marocchini e algerini della truppa irregolare inquadrata nel corpo di spedizione francese, che hanno partecipato alla campagna d’Italia come componenti del XVI gruppo d’armata anglo-americano; sono loro, in quella primavera-estate del 1944, a lasciarsi andare a una serie impressionante di saccheggi, uccisioni, torture e stupri di gruppo contro la popolazione civile”, spiega Ponzani, che tuttavia aggiunge, “Nel caso delle «marocchinate», il racconto della violenza è però, soprattutto, il risultato di una mediazione sociale, culturale e politica, in cui s’intrecciano credenze popolari, superstizioni religiose, distorsioni della realtà e oblii“.

I pregiudizi razzisti presenti nella mentalità popolare, e alimentati da più di dieci anni di propaganda razzista del regime, fanno sì che le popolazioni facciano di tutta un’erba un fascio, confondendo indiani, marocchini, algerini, accomunati nella bestialità, e che si attribuisca a loro soli, almeno nella narrazione collettiva, la responsabilità degli stupri di massa.

“Il comportamento dei civili dimostra però anche fino a che punto i temi della propaganda della Repubblica sociale siano stati introiettati nel profondo delle coscienze. Le disposizioni autoritarie del governo di Salò, che mirano a garantire la difesa dei civili dall’azione di queste truppe, fanno sentire di nuovo protetti”. La RSI, infatti, legalizza l’aborto per i soli casi, vagliati uno per uno dal Ministero dell’Interno, in cui donne italiane siano rimaste incinte a causa di stupri commessi da «stranieri nemici spesso appartenenti a razza non ariana» perché tali azioni «compromettono la sanità e la purezza della nostra razza». Nessuna motivazione umanitaria, quindi, ma solo razziale.

Se le partigiane sapevano riconoscere la motivazione politica dietro le violenze da loro subite, altre mentalità portano  differenti interpretazioni: “il significato che le comunità contadine […] danno agli stupri di massa compiuti dai soldati «di pelle nera» è invece tutto da ricondurre all’interno di una tipica interpretazione della guerra propria delle società rurali, dove […] i conflitti bellici e la stessa violenza nazista sono […] considerati comunque inevitabili al pari delle catastrofi naturali“, spiega Ponzani, “Così, per Maria Z. è nella natura delle cose che «in autunno le sorelle nascondevano i fratelli dai nazisti e in primavera i fratelli proteggevano le sorelle dai marocchini»”.

“La realtà di una guerra che è insieme un conflitto tra razze, di conquista e di sterminio, combattuta in violazione di tutte le regole che avevano disciplinato l’esercizio della violenza tra Stati sovrani, fin dal XIX secolo, viene per questo sottoposta a un processo di distorsione. Nasce da qui il mito irrazionale del «bravo soldato tedesco», il mito del soldato della «Wehrmacht sostanzialmente buono rispetto alle SS-cattive», che avrebbe rispettato le donne a differenza delle truppe francesi e dei soldati marocchini e algerini”, afferma Ponzani, citando L. Klinkhammer, e più oltre aggiunge, “Il comportamento dell’esercito tedesco verso la popolazione civile viene allora giustificato a posteriori in base all’idea che vi siano state esigenze militari maggiormente comprensibili rispetto all’esplosione della violenza alleata, certamente più grave e assolutamente immotivata proprio perché compiuta dai «liberatori»”.

“Il lungo silenzio su queste violenze, da parte di popolazioni costrette a vivere tra le macerie delle case distrutte dai bombardamenti, sotto la minaccia dell’occupazione tedesca prima, e soggiogate dai crimini delle truppe francesi poi, non è tuttavia il solo risultato delle sofferenze patite; di traumi che non riescono a trovare una spiegazione accettabile e razionale. Si tratta piuttosto di una conseguenza inerente alla costruzione di una memoria pubblica della guerra «conflittuale», in cui non vi sarà mai posto per la narrazione di esperienze lontane dal mito patriottico della Resistenza armata e vittoriosa del Nord e degli Alleati «liberatori» che hanno restituito «la democrazia»“, afferma Ponzani, che prosegue, “Il fenomeno della rimozione degli stupri compiuti dai marocchini, simile all’oblio già riscontrato per i casi di abuso compiuti a Nord della linea Gotica, è […] essenziale per ricomporre le comunità sconvolte dalla guerra e per poter estinguere il conflitto civile interno; si tratta però di un’operazione complessa, che rende «indispensabile cancellare ogni traccia di violenza destrutturante i valori condivisi da una comunità». […] I processi di rimozione […] sono anche all’origine dello scarso numero di denunce effettuate dalle vittime nel dopoguerra, che si rivelano per questo del tutto insufficienti a quantificare il fenomeno degli stupri”.

Ovviamente, oltre al processo di rimozione, all’origine delle mancate denunce c’è il timore di essere additate come corresponsabili dal solito meccanismo victim blaming. Nelle parole di Ponzani, “molte vittime evitarono di denunciare le violenze subite e di sottoporsi a cure mediche per non essere individuate ed evitare, così, di essere additate, in qualche modo, per sospetta collusione con i carnefici. Il senso di vergogna per quanto accaduto è del resto sempre presente nelle testimonianze […]”.

La pensione di guerra fu concessa solo alle vittime che avessero contratto una qualche forma di malattia venerea e quindi potessero dimostrare concretamente la violenza subita. […] «Per il contagio e non per lo stupro, infatti la violenza sola, pur accertata non bastava se la donna, o la bambina, non era stata contagiata. Sempre generoso lo Stato con le donne!»”, ricorda Ponzani, citando Maria Teresa F. In molti casi, oltre alla vittimizzazione secondaria e alla discriminazione da parte delle istituzioni, le donne dovettero affrontare, “la condanna morale e psicologica delle comunità di origine, con l’effetto di rinchiudere le vittime in un sentimento di vergogna e di abbandono“, nelle parole di Ponzani, che più oltre continua, “Non sono solo le comunità rurali e culturalmente arretrate ad avere difficoltà ad accettare questa drammatica esperienza nel tessuto sociale locale: le vittime […] sono additate come colpevoli proprio dai loro mariti per non aver saputo resistere alla violenza, e perciò ripudiate. […] Lo stupro è nella mentalità maschile una condizione impossibile da accettare. La violenza alle donne è infatti prima di tutto una consuetudine bellica, un oltraggio del vincitore sul vinto, e non invece – come si aspetterebbero le vittime, ansiose di una consolazione che invece non arriverà se non in rari casi – come una violenza che riduce le donne a simbolo di conquista”.

Stupri di guerra. La violenza sessuale nella strategia del terrore tedesca

Nel settimo capitolo, “Ricordare l’indicibile”, del suo saggio Guerra alle Donne (qui la puntata precedente, relativa al sesto capitolo), Michela Ponzani affronta il tema delle violenze sessuali commesse dagli eserciti sul territorio italiano. “A differenza delle violenze commesse dai fascisti nei luoghi di detenzione della RSI, gli stupri di massa perpetrati dalle truppe tedesche e dai soldati mongoli della CLXII divisione Turkestan, aggregata ai reparti militari della Wehrmacht […] appartengono al contesto più generale della violenza diffusa scatenatasi in quei mesi nella «guerra ai civili» […] e rimandano all’insieme delle azioni terroristiche contro popolazioni inermi di cui fanno parte gli incendi di villaggi, gli arresti, le uccisioni di donne e persino di neonati”.

“Assistere alla violenza sessuale inflitta alla propria madre, sorella, amica o parente, specie se durante la prima infanzia, significa conservare in sé le radici di un fortissimo trauma impossibile da elaborare e pertanto destinato a celarsi nell’oblio; il vissuto del senso di colpa è infatti non solo schiacciante, ma destinato a divenire tanto più profondo quanto più a quella violenza si è rimaste a guardare impassibili o si è scampate per puro caso”, riflette Ponzani.

Gli stupri si inquadrano all’interno della «politica del terrore», “la tattica di terrorismo pianificato e preventivo utilizzata dalle forze militari occupanti tedesche tra il ’43 e il ’45 per punire «la popolazione civile e privare la resistenza armata dell’humus in cui svilupparsi e rafforzarsi». Le donne sopravvissute al conflitto […] non riescono però a estrapolare la matrice dei fatti di sangue dal mito pseudostorico del «cattivo tedesco» descritto come barbaro, sanguinario e insensibile. D’altra parte è proprio grazie a questo mito che le popolazioni riusciranno a sopravvivere al terribile ricordo di quei giorni e a trovare una motivazione, seppur labile, alla ferocia nazista, spiegata appunto come frutto di una bestialità primitiva”, spiega Ponzani, che chiarisce poi, “Se per le popolazioni locali tutto è riconducibile alla […] «malvagità del nemico», la strategia del terrore […] è in realtà ispirata dal timore che possa nascere un possibile legame tra le formazioni partigiane e i civili e si orienta a contenere il pericolo eliminando alla radice le condizioni che lo rendono tale. Tuttavia le continue vessazioni, i furti, gli omicidi, i rastrellamenti, le violenze sessuali ripetute che vanno funestando la zona in quei mesi sono atti che non possono essere letti dalle vittime come logici e razionali elementi della cultura di guerra del nemico“.

Eppure lo sono: “è la guerra condotta «casa per casa», il diffondersi della paura da usare con strategica precisione affinché i civili restino intrappolati in una dimensione totale della violenza e non siano più in grado di garantire quelle condizioni che rendono possibile l’operatività delle brigate partigiane. […] Visto che non si riescono a stanare i «ribelli» dai loro nascondigli, si preferisce adottare la tattica meno dispendiosa e più efficace per garantirsi il controllo del territorio. È una strategia […] in cui si distinguono tanto le truppe tedesche d’occupazione quanto i reparti armati fascisti della Repubblica sociale, resa possibile da una serie di norme emanate nella primavera-estate del ’44 che incitano le truppe dell’esercito a una brutalizzazione del conflitto, garantendo l’impunità per i responsabili dei crimini commessi”, spiega Ponzani.

Queste norme hanno un precedente “nell’Europa dell’Est dal 1942 nella lotta al bolscevismo: le «regole» che ne stabiliscono i piani operativi sono sintetizzate nelle disposizioni contenute nella […] «Merkblatt 69/1», una direttiva che ha previsto da tempo la legittimità dell’uccisione di civili che si ritiene (a torto o a ragione) siano utilizzati dai partigiani come informatori o semplicemente che sostengano la guerriglia, senza alcun accertamento della loro presunta colpevolezza“, ricorda Ponzani.

“Le violenze e gli stupri compiuti dai soldati tedeschi non sono solo il frutto di sadismo o di innata ferocia, [ma sono prodotto] della «radicalizzazione della politica repressiva decisa dagli apparati di potere nazisti in Italia», come un tragico ed estremo esempio di «operazioni di annientamento nelle zone di stanziamento partigiano». […] Una strategia che può anche accompagnarsi ad altre tipologie di violenza diffusa come rastrellamenti, uccisioni indiscriminate di singoli prigionieri o di partigiani, deportazioni di renitenti alla leva o di disertori, distruzione integrale dell’ambiente circostante con l’incendio di villaggi; fucilazioni indiscriminate, minacce, saccheggi, torture sui corpi dei prigionieri politici.  […] Il senso di questa operazione «contro gente indifesa» [è] da inquadrare nella tattica militare che mira a rendere inospitale un territorio pronto ad accogliere le bande di «ribelli».

Ma parlando specificamente dello stupro, Ponzani rileva dalle testimonianze delle sopravvissute che “chi ricorda lo stupro è destinato a riviverlo, a rivederne la dinamica, i luoghi, le voci, i suoni e a sentire sulle spalle il peso del vuoto, del silenzio, dell’abbandono di fronte alla violazione del sé. Lo stupro è un’esperienza che annienta e investe anche le tradizionali forme di solidarietà sociale intrafamigliare; e le memorie delle donne sono piene di immagini ricorrenti, come quelle di padri, mariti, fratelli resi impotenti di fronte al sopruso inflitto alle proprie donne, incapaci di riprendersi da una ferita non rimarginabile. Ciò che pesa sulle loro coscienze è infatti lo sfregio e l’umiliazione del corpus famigliare di origine, la violazione dell’onore e del pudore della donna, tratto essenziale per eccellenza con cui da secoli la civiltà occidentale ha stabilito l’integrità della comunità d’appartenenza“.

“Se non proprio giustificato dalle «esigenze» dei soldati in guerra, l’abuso inflitto alle donne viene in qualche modo sminuito da tutta una serie di preconcetti, come quello che imputerebbe alla vittima una sorta di complicità e anche di responsabilità se lo stupro avviene a opera di un solo aggressore, se confessato dopo molti anni (a causa della necessità di un difficile e sofferto processo di elaborazione della violenza, specie nei casi di bambine) o se la vittima è considerata di «dubbia moralità»”, spiega Ponzani, “Nelle loro testimonianze le donne denunciano di non aver avuto un’adeguata considerazione rispetto a ciò che stava loro accadendo, di essere state addirittura schernite per i tentativi di violenza a opera delle truppe occupanti. Ci sono casi poi in cui le donne sono costrette a sottomettersi al proprio destino e a subire l’abuso dietro invito al sacrificio di sé, tipico della rassegnazione cristiana, al fine di salvare i componenti della propria famiglia”. La cosa triste è che il victim blaming sia rimasto inalterato dagli anni ’40 ad oggi.

“A sopravvivere dalle selezioni della memoria e a riemergere costantemente […] è questo profondo smarrimento per una violenza che si continua a percepire come insensata, fatta di gesti spietati, crudeli che colpisce con assoluta discrezionalità. […] A ogni modo sono proprio le memorie delle donne che hanno vissuto la guerra lungo il fronte tedesco a sconfessare il mito del comportamento onorevole dei militari della Wehrmacht, contrariamente al senso comune nazionale che avrebbe addossato la responsabilità degli stupri di massa ai soli soldati algerini e marocchini a seguito dell’esercito francese.”, conclude Ponzani. Delle violenze delle truppe coloniali avremo modo di parlare nella prossima puntata.

In lotta per la sopravvivenza, dalle città ai campi di sterminio

Proseguendo la serie di post dedicata a Guerra alle Donne di Michela Ponzani, di cui potete trovare la parte precedente qui, tratterò del quinto capitolo, “Fame, solitudine, abbandono”, che tratta delle forme di «resistenza civile» messe in atto dalle donne per sopravvivere, materialmente e psicologicamente, alle dure prove del conflitto, strategie che variano, ovviamente, in base ai diversi contesti geografici e ai problemi e risorse presenti.

La «resistenza civile» è “la prima arma che si ha per sopravvivere; una forma di lotta essenziale, non secondaria, per garantire «quelle azioni di erosione continua, se pure meno eclatante, del potere degli occupanti». La «cura della vita, anche nella sua dimensione quotidiana», assume il significato «di un’opposizione e l’affermazione di una soglia oltre la quale la violenza di chi la guerra aveva voluto non poteva più essere accettata»”, spiega Ponzani.

Questo capitolo si incentra sulle strategie di sopravvivenza delle donne in lotta contro la fame e le profonde conseguenze psicologiche che comporta: “lo stato di denutrizione patita nei giorni del conflitto si accompagna all’incontro col deperimento fisico, con la perdita della propria femminilità e in alcuni casi anche con la morte; è per questo che la memoria della fame non dà tregua, quasi come se la guerra altro non fosse stata che il senso di angoscia per non riuscire a trovare un mezzo di sostentamento e per far fronte all’aumento dei prezzi dei generi alimentari”. Le donne si affannano tutto il giorno per riuscire a scambiare i loro beni per un po’ di cibo con cui nutrire i loro figli, privandosene per darlo a loro, in una “continua situazione di precarietà dove non c’è più protezione, sicurezza e ordine sociale“.

In alcuni casi fra le donne accomunate dalla stessa situazione, rimaste sole per la partenza degli uomini al fronte, o perché prigionieri, dispersi o deportati, si creano «reti di solidarietà, soprattutto tra donne e tra famiglie, spesso legate da parentele o da amicizie, spesso anche del tutto reciprocamente sconosciute». In Germania le donne che si arrangiano per sopravvivere con quello che trovano sono chiamate Trümmerfrauen, “donne delle macerie”, e sono coloro che “decidono di «rimboccarsi le maniche per ricostruire, dalle rovine delle città distrutte, la nuova Germania». I loro sforzi non sono però destinati a rimettere in piedi la patria esaltata dal regime nazista; quel Terzo Reich che ha promesso destini tanto grandiosi quanto improbabili. La battaglia di queste donne tedesche che «andavano a caccia di cibo tutti i giorni» è tutta per i figli”, chiarisce Ponzani.

Disfando coperte e lenzuola, riciclando la lana dei materassi, insieme a tutti i capi di abbigliamento non necessari come i veli, le donne rammendano e creano nuovi vestiti, fanno scarponi con pezzi di cuoio grasso. Si ingegnano a preparare qualsiasi cosa sia commestibile, imparano a riconoscere le piante selvatiche commestibili, svolgono qualunque lavoro  in cambio di un po’ di cibo. Le donne, nelle loro testimonianze di quando erano bambine ricordano le lunghe file per le razioni previste dalla tessera annonaria, i bollini, i momenti di gioia quando il padre che lavorava sotto i comandi militari tedeschi tornava a casa con un po’ di zuppa e un pezzo di pane nero nella gavetta, le contadine che per le strade di Napoli vendevano ranocchiette scuoiate o piccole cozze con cui preparare il brodo, “piacevoli sentori di una convivialità che tuttavia non è uguale per tutti e che appare sporadicamente soltanto […] dove la presenza stanziale delle truppe può comunque garantire una minima quantità di cibo razionato”, il sistema di scambi con chi aveva qualcosa, come fornai e contadini, l’«ortica cotta e condita con sale raschiato dai barili di acciughe, per gentile concessione del nostro salumiere».

Si tratta di una lotta per la sopravvivenza. “Lo stato di denutrizione estrema, lo stress di una vita continuamente a rischio, il terrore della morte, lasciano però segni pesanti anche sul corpo delle donne adulte, perché la sofferenza fisica che si patisce sfocia ben presto in vere e proprie patologie, come denota la scomparsa delle mestruazioni. E ciò significa assistere visivamente al dissolvimento delle forme che denotano la propria identità di donna, della propria femminilità. «Non c’è stata nessuna donna che avesse le mestruazioni», ha dichiarato la partigiana Carla Capponi”, spiega Ponzani.

La storica prosegue parlando delle condizioni delle donne nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove «il corpo subisce una repentina e costante trasformazione con il deperimento, la perdita delle mestruazioni, le piaghe dell’avitaminosi, i pidocchi, i segni delle scudisciate, la perdita dei denti, i dolori alle ossa». Sono circa 45.000 le donne internate nel lager di Ravensbrück Fürstenberg/Havel, nella Germania orientale. Entrato in funzione nel 1939, è un campo prevalentemente femminile, destinato alle «prigioniere politiche» provenienti da tutti i paesi invasi e occupati dalle truppe hitleriane: le donne che vi arrivano hanno viaggiato sui convogli provenienti dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Francia e dall’Italia. Decine di migliaia saranno uccise proprio dalla fame, oltre che dalle malattie o a causa di esperimenti medici. Costrette a resistere come possono agli stenti, alla denutrizione, al rigidissimo clima invernale, le italiane internate a Ravensbrück sono a oggi conteggiate in 768, ma il loro numero è destinato a salire a 871 «se si tiene conto dei transiti complessivi»”.

Nel campo, “l’accanimento del personale di sorveglianza sulle detenute politiche è certamente una forma di pressione psicologica per far scontare il loro attivismo politico, ma assume talvolta anche le sembianze di veri e propri atti di sadismo: perlomeno questo è il senso che la testimone dà delle continue perquisizioni nelle camerate, effettuate senza motivo, delle adunate al freddo, delle umiliazioni cui le prigioniere vengono sottoposte e degli esperimenti medici sui loro corpi”, spiega Ponzani, che prosegue, “La deportazione e la detenzione nei campi di sterminio hanno fatto sì che il senso d’abbandono assumesse tratti devastanti; il lager ha segnato per tutte l’«esperienza del limite», perché non esiste un ordine simbolico nel quale inserire la perdita del carattere di ogni tipo di umanità, spenta e azzerata irrimediabilmente per sempre. La peggior punizione inflitta alle nemiche politiche è passata anzitutto per l’azzeramento della dimensione privata del corpo, spogliato di ogni dignità. […] Il campo non è soltanto un moderno e sofisticato luogo di detenzione fisica e di isolamento dal mondo esterno, ma anche un «non luogo» della memoria, l’inizio dell’azzeramento di ogni condizione umana e sociale, finora conosciuta, dove non c’è più rispetto per la decenza e il pudore”. Per alcune questo azzeramento passa attraverso lo stupro, per tutte significa “affrontare altre forme di sofferenza più sottili, di natura psicologica, attuate volutamente per degradare l’essere umano agli istinti più bassi, in un tragico bollettino di afflizioni e supplizi quotidiani: alla promiscuità nelle baracche, all’assenza di acqua e cibo, ai banali incidenti sul lavoro, si aggiunge la violenza di restare chiuse, con le porte sigillate, all’interno dei capannoni di fabbrica che vengono quotidianamente distrutti dai bombardamenti dell’aviazione anglo-americana”.

“All’interno di quel limbo che è il campo di detenzione non si è dunque assistito solo al deturpamento del proprio corpo violato: il lager ha fatto pure saltare quei codici culturali che la civiltà occidentale ha posto a difesa della maternità, perché alle donne incinte che sono arrivate nel campo è stato imposto di abortire anche in avanzato stato di gravidanza. Altre invece sono state costrette a veder morire i loro figli appena venuti al mondo perché i neonati non sono riusciti a resistere alle condizioni del campo”.

“Il ricordo di quel periodo resta comunque imperniato nell’annichilimento del corpo e della personalità e quindi sulle angherie, le percosse e i maltrattamenti inflitti dal personale di guardia dei campi”, spiega Ponzani, “A queste espressioni di aridità umana quando non di vera e propria follia fanno da contrappunto i gesti di solidarietà tra compagne, come quello di farsi coraggio e di infondersi forza nei momenti di maggiore sconforto. Quando si ha freddo sono le compagne a «scaldare le mani» e a consolare nei momenti d’abbattimento”.

Alcune internate ricevono la possibilità, che a loro appare come un’ancora di salvezza, di lavorare come manodopera forzata nelle industrie belliche del Reich. “Ma dietro questo invito si nasconde un inganno, perché andare a lavorare nelle fabbriche del Reich segnerà soltanto il passaggio da prigioniere schiave. L’offerta delle autorità militari tedesche nasce infatti da una decisione imposta da necessità puramente organizzative, dettata dall’esigenza di far fronte al prolungarsi inaspettato del conflitto, al conseguente esaurimento della manodopera tedesca e all’utilizzo più efficiente possibile del bacino di forza lavoro prelevato nei campi di prigionia. […] Ma […] le detenute politiche sembrano avere maggiore consapevolezza del fatto che i periodi di tregua e di allentamento della disciplina, rispetto alla vita del campo, siano fenomeni conseguenti all’incapacità delle autorità militari tedesche di gestire e padroneggiare un numero di lavoratori coatti sempre più crescente, e alle difficoltà nel garantire un buon funzionamento di quella macchina bellica tedesca“.

Donna Moderna, il biodinamico e la superficialità di certi giornalisti

Su Donna Moderna del 10 giugno 2014 è comparso un articolo di due pagine dedicato all’agricoltura biodinamica. L’ho trovato interessante, perché la visione di questa pratica fornita dall’articolo è completamente fuorviante e parziale. Come spesso accade nei media mainstream, la trattazione di tematiche green, quello stile di vita basato sulla triade ecologico-biologico-km 0, risulta superficiale e poco informativa. Se non sapessi dove trovare informazioni serie sull’agricoltura biodinamica (grazie infinite a Dario Bressanini per il suo lavoro di divulgazione), non capirei di cosa si tratta leggendo questo articolo, che alla fine è solo un ampio spot pubblicitario per l’agricoltura biodinamica. Non è la mancanza di informazioni scientifiche a deludermi, anche se mi avrebbe fatto piacere (ma so che Donna Moderna considera Michela Kuan un’esperta di riferimento, l’hanno intervistata perfino in merito alla domanda se i prodotti omeopatici fossero o meno cruelty free), è in generale la superficialità, il fatto che l’autrice dell’articolo non si sia posta due domande fondamentali: “come? perché?”.

E niente. Volevo riportare solo un po’ di affermazioni tratte dall’articolo (in corsivo) e commentarle, cominciando dall’occhiello:

Il biologico? Non ci basta. Crescono le aziende agricole che usano metodi di coltivazione ancora più naturali. Non è soltanto un modo diverso di trattare la terra, ma una vera filosofia di vita

Quindi, già prima ancora di iniziare l’articolo, apprendiamo che il biodinamico è superiore al biologico, che non ci basta, in quanto “ancora più naturale”. Be’, più è naturale meglio è, no? A questo punto perché coltivare? La raccolta di bacche e frutti spontanei è ancora più naturale, ci riporta alle nostre origini di cacciatori-raccoglitori nel Paleolitico, e vuoi mettere il contatto con la natura?

Biodinamico vuol dire, letteralmente, vita (bio) che si origina per l’attività di forze (dinamica). 

E già qui non ha senso. Quali forze?

Mentre un coltivatore biologico si limita a non utilizzare la chimica sulle piante, il coltivatore biodinamico deve andare più in profondità, preoccupandosi anche di arricchire e fortificare il terreno su cui opererà.

Tralasciando l’aver completamente mancato la definizione di agricoltura biologica (e forse anche quella di chimica), detto così sembra che solo i coltivatori biodinamici utilizzino i fertilizzanti.

Ogni campo è trattato come un enorme laboratorio, “dinamizzato” con preparati a base di sostanze naturali e letame, per incrementare la sua vitalità e le sue difese. L’obiettivo è rendere sane le piante in modo che possano autonomamente resistere alle malattie e ai parassiti.

La prima frase è l’unica “spiegazione” presente nell’intero articolo riguardo a cosa consista in concreto l’agricoltura biodinamica. E se speravate di trovare una spiegazione circa il modo in cui il biodinamico renderebbe sane le piante, rassegnatevi.

Il paragrafo successivo spiega che la riconversione al biodinamico richiede tempi lunghi e dopo si passa a raccontare di come il filosofo austriaco Rudolf Steiner abbia inventato questo metodo, “preoccupato dagli effetti dei moderni metodi di coltivazione e, soprattutto, dall’uso sempre maggiore dei concimi chimici, che aumentavano la produzione, ma peggioravano la qualità dei cibi”, e dopo ancora dell’esperienza di Giulia Maria Crespi, che, folgorata sulla via di Damasco dalle teorie di Steiner, ha deciso di creare la sua azienda biodinamica.

“Se si va su un campo coltivato con questo metodo, si infilano le mani nella terra e si raccoglie una zolla, quel terreno si muove: è vivo, grazie ai lombrichi, ai vermetti e ai microrganismi che lo compongono”, spiega Valentina Passalacqua, giovane imprenditrice pugliese.

Poetico, non è vero?

“Dopo la laurea in Legge ho iniziato a lavorare con mio padre, occupandomi di aziende industriali nel campo dell’ortofrutta. Ma così non riuscivo a esprimere la mia parte più femminile, più sensibile. Con l’arrivo della mia prima figlia, poi, è scattato qualcosa: ho ripreso a fare passeggiate in campagna e a ristabilire un contatto diverso con la terra” (è sempre Passalacqua a parlare, ndr)

Se io penso che il biodinamico sia una ciarlataneria senza fondamento, significa che ho perso il contatto con la mia parte più femminile e sensibile? In effetti questo spiega perché odio il rosa e non ho mai imparato a camminare sui tacchi alti…

L’agricoltura biodinamica può apparentemente sembrare un ritorno al passato: nei campi si vedono di nuovo gli animali, si riduce l’intervento della meccanica e i tempi della semina sono dettati dalle fasi lunari. La realtà, però, è che forse come nessun altro gli agricoltori biodinamici lavorano per il futuro, per lasciare una terra viva e sana alle prossime generazioni.

Non voglio sorvolare su sciatterie linguistiche come “apparentemente sembrare” e “la realtà, però, è che forse…”, perché quando si è pagati per scrivere – oltre che per documentarsi prima di scrivere, ma tant’è – bisognerebbe farlo con cura. Ma la cosa più importante è che in nessun momento alla giornalista viene in mente di chiedersi COME queste tecniche – i tempi di semina secondo le fasi lunari, la riduzione della meccanica – garantiscono “una terra viva e sana”.

Non c’è bisogno di chiederselo, d’altronde. Fa parte delle idee di senso comune sul biologico, secondo cui la chimica è una cosa negativa a prescindere, la natura è un’entità buona e armoniosa, e il biologico garantisce cibi “naturalmente” (in entrambi i sensi) più buoni e più sani.

Per saperne di più sul biodinamico, rimando alla serie di articoli di Dario Bressanini:

– Biodinamica®: cominciamo da Rudolf Steiner , per il pensiero di Steiner e una spiegazione articolata (e parecchio divertente) di cosa siano veramente le tecniche biodinamiche e del perché il pomodoro è la creatura meno socievole di tutto il regno vegetale;
– Uno studio sul vino biodinamico, per lo stato della conoscenza scientifica sul biodinamico e riflessioni sulla tendenza al “fideismo neopagano”, come lo definisce Bressanini, che è alla radice della moda del bio;
– Ma il vino biodinamico è buono?, per una spiegazione dei trattamenti chimici (ebbene sì!) utilizzati nell’agricoltura biologica e del perché l’argomentazione sulla bontà dei vini biodinamici è fallace e irrilevante;