il ricciocorno schiattoso

Confesso che sull’argomento, non mi ero mai presa la briga di informarmi, prima di conoscere il Dott. Vincenzo Puppo. Ma dopo aver letto il materiale che mi ha procurato, non posso esimermi dall’affrontare l’argomento..

Se digito punto G su google trovo pagine come questa, che ci spiega esattamente come, in modo sicuro e collaudato, possiamo risvegliare le potenzialità del  punto G (che evidentemente è solito trovarsi immerso in uno stato di insonnolita inattività); la cosa strana è che in calce ci mostra un’indagine che racconta che su 70 donne, solo 20 lo hanno identificato: 20 su 70 è meno del 30%, percentuale che dovrebbe renderlo un metodo per niente sicuro, visti i risultati del collaudo.

Proprio perché è così difficile da trovare, o da “usare”, medici specialisti e autorizzati ci incoraggiano a intervenire con un bell’ampliamento del punto G: qualche minuto in anestesia locale, un po’…

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The Apprentice e gli stereotipi sull’infanzia

Ieri stavo guardando il terzo episodio del talent show The Apprentice, dove i concorrenti, sei uomini e sei donne, sono sottoposti a prove volte a testare le loro abilità nel fare business per vincere un contratto presso Flavio Briatore, giudice del programma. Dopo la sfida al mercato ittico e le commesse per conto dei clienti dell’hotel Principe di Savoia, la terza prova consisteva nel progettare per conto della Giochi Preziosi dei giocattoli per bambini dai cinque ai nove anni, che non costassero più di quindici euro.

Alla squadra delle donne, che aveva però un capogruppo di sesso maschile, è stata affidata la progettazione di un giocattolo per bambini, mentre alla squadra maschile, con una donna per capogruppo, un giocattolo per bambine. Questa netta divisione è la riprova del fatto che già a quell’età i bambini sono inquadrati in base al sesso, e si suppone abbiano modalità di gioco talmente diverse da richiedere dei prodotti ad hoc, con caratteristiche che li rendano adatti solo a loro. Questo fatto è peraltro evidente camminando in un qualsiasi centro commerciale, dove la corsia dei giochi per bambine è caratterizzata dalle confezioni rosa brillante, mentre nella corsia dei giochi per bambini è presente una più ampia varietà di colori, come rosso, blu, grigio, nero, verde, ma il rosa è totalmente assente, perché questo colore porta impressa, nella mentalità comune, la dicitura inviolabile “for girls only”.

I due gruppi hanno osservato i prodotti già commercializzati per quella fascia di età e per quel genere, prodotti fortemente stereotipati: bambole dai grandi occhi e dai lunghi capelli, truccate in modo elaborato e vestite in modo fashion e sexy per le bambine, riproduzioni degli eroi dei cartoni (Ben Ten, Generator Rex, i Gormiti, ecc) per i bambini. Partendo da questi prodotti, hanno iniziato ad elaborare le loro idee: nessuno, né in un gruppo né nell’altro, ha messo in discussione i modelli proposti ai bambini.

Il team Lux, la squadra delle donne, dopo una sessione di brainstorming ha concluso che i bambini hanno bisogno di un gioco che stimoli la loro fantasia e possa essere interpretato creativamente, quindi hanno ideato un animale-robot, Orangobot, che hanno disegnato sui toni del blu e del rosso. Il background in cui è calato il personaggio è uno scenario futuristico, in cui questa creatura è l’ultimo eroe rimasto a difendere la Terra del 3018: i bambini hanno quindi la possibilità di immaginare le avventure del robot, di farlo combattere magari con personaggi provenienti da altre serie. Il gioco lascia loro ampi spazi di libertà.

Il Gruppo, la squadra maschile, ha optato per un set di trucchi, lucidalabbra, ombretti, ecc, sostenendo che le bambine sentono l’esigenza di essere belle e alla moda; l’idea era che le bambine si identificassero sia con la truccatrice sia con i personaggi che esse stesse possono diventare attraverso il trucco, il quale quindi ha il potere di trasformare la bambina in ciò che sogna di essere: popstar, principessa, fatina. Per renderlo più vicino al target, hanno aggiunto l’elemento della magia: lo scrigno magico che da’ alle bambine la possibilità di realizzare i loro sogni. Lo scrigno, color rosa e decorato con immagini di ragazze dagli occhi tondi e sgranati, che si apre per mostrare lo specchio e i trucchi contenuti all’interno, è stato chiamato dapprima Stella Make-Up, poi Star Make-Up.

I prodotti, una volta realizzato il modello tridimensionale, sono stati proposti alle mamme: solo mamme, nessun papà, come se la scelta dei giocattoli per i figli non facesse parte del ruolo paterno, un altro stereotipo della nostra cultura. Nessuna di loro ha avanzato critiche circa il significato dei giocattoli proposti, ma le loro osservazioni sono state riferite solo al contenuto dei giochi. Trovo sconcertante il fatto che i genitori accettino acriticamente ciò che le aziende propongono ai loro figli, senza interrogarsi sul messaggio che viene trasmesso. Mi rendo conto che critiche del genere potrebbero essere state omesse dal programma, ma mi sembra più plausibile credere che non siano state nemmeno sollevate, vista la scarsa consapevolezza esistente nel nostro Paese circa i condizionamenti di genere che i bambini subiscono durante l’infanzia e che finiscono per plasmare la loro idea di “mascolinità” e “femminilità” in modo stereotipato, ostacolando la loro possibilità di svilupparsi come individui e restringendo la loro libertà di scelta, riguardo a ciò che vogliono essere, alle opzioni accettate dalla società.

Successivamente, i due gruppi hanno ideato i manifesti pubblicitari per Orangobot e Star Make-Up: il primo, che presenta l’eroe che sfreccia nello spazio, è sui toni del blu, con il nome che campeggia a grandi lettere tridimensionali in cima al cartellone e una striscia di luce a sottolinearlo, e il secondo, che raffigura il cofanetto con dei fumetti che partono da esso raffiguranti le varie possibilità per la bambina: principessa, fata e popstar. Se al bambino si offre un eroe in cui immedesimarsi, presumibilmente per virtù come il coraggio, la forza, la bontà alla bambina si offre un modello da imitare in base a due soli parametri: bellezza e successo.

La differenza di atteggiamento nei confronti di maschi e femmine è stata evidente nel modo in cui i concorrenti hanno presentato i due prodotti ad un campione di cinque bambini e bambine: nel caso dei maschi, un membro del gruppo ha chiesto loro quali superpoteri vorrebbero che Orangobot avesse, nel caso delle femmine, è stato mostrato loro come giocare con Star Make-Up e come il prodotto poteva aiutarle a sentirsi belle “perché è magico”.

In conclusione, nessuno dei due gruppi ha fatto un lavoro particolarmente originale, ma nell’osservazione del processo di genesi dei due giocattoli è evidente come gli stereotipi di genere abbiano permeato la mentalità comune e di come senza consapevolezza è inevitabile che vengano trasmessi anche alle generazioni successive proprio negli anni in cui sono più vulnerabili a questo tipo di messaggi. In particolare, le bambine sono maggiormente esposte sia perché i condizionamenti sono rivolti principalmente alle donne, dal momento che la cultura patriarcale ha interesse a imporre modelli più limitanti e stringenti a queste ultime, sia perché i prodotti per i bambini non sono connotati in modo così netto come maschili, ed è più probabile che sia una bambina a chiedere Orangobot che un bambino a chiedere Star Make-Up (ed è quasi certo che, anche se lo chiedesse, non lo otterrebbe, perché i genitori sarebbero terrorizzati all’idea di poter avere un figlio gay).

PS: Alla fine della puntata, Orangobot si è rivelato il prodotto vincitore della sfida. Star Make-Up è stato giudicato come non abbastanza originale per conquistare il mercato…sarà stato per il packaging rosa shocking? Io l’avrei fatto azzurro glitterato argento, o verde brillante glitterato argento, in modo che risaltasse nel mare di rosa degli scaffali di prodotti per bambine, distinguendosi e attraendo lo sguardo, ma questa è solo un’idea che mi è venuta guardando il programma…

 

Combattere i preconcetti che ci tarpano le ali II: minigonne e libertà

Vorrei non dover parlare sempre di corpi, quando scrivo di donne, ma sembra che non possa farne a meno, perché, nonostante tutto sia già stato detto, nessuno lo ha ascoltato. Purtroppo, il corpo è ancora la prima cosa che qualifica una donna, e viene usato come un’arma contro di lei. Contro di noi, perché “Per ogni donna ferita o offesa siamo tutte parte lesa” non è solo uno slogan: il fatto che ci siano ancora donne uccise da un partner che voleva controllare la loro vita e non riusciva ad accettare la loro indipendenza significa che questa società non ha ancora accettato la nostra parità, e questo è un problema che riguarda ognuna di noi, in quanto donna, e riguarda tutti, in quanto cittadini, in quanto persone.

Meme di Facebook. Il testo recita “Come si chiama una donna che fa molto sesso?” “Con il suo nome”

Nel 2012, permane ancora la divisione tra “sante” e “puttane”, espressa più elegantemente con “ragazze serie” e “ragazze facili”. Etichettare come troia una ragazza che ama il sesso è una forma di controllo sul suo corpo, retaggio di una cultura patriarcale e cattolica in cui da una parte il corpo femminile è sempre stato considerato come peccaminoso e la sessualità come un tabù, e dall’altra gli uomini hanno assunto il controllo del corpo femminile, limitando le libertà delle donne e le loro possibilità di autodeterminarsi. La sessualità femminile è sempre stata negata, ricercare il proprio piacere invece di restare passive era considerata una cosa da prostitute, indegna di una donna perbene, soprattutto se madre, e il sesso era accettato solo all’interno del matrimonio e con finalità riproduttive. L’adulterio era considerato un crimine solo femminile, mentre era giustificato nel caso degli uomini, così come era tollerato che un uomo sfogasse i suoi desideri con le prostitute, concedendosi ciò che sarebbe stato sconveniente fare con la moglie. Ancora oggi, per un uomo ammettere di masturbarsi è normale, ma è inappropriato per una ragazza.

Meme tratto da Facebook. Il testo recita “Cammina per strada vestita così – si la menta che non riesce a trovare un uomo serio (oppure, un uomo che la rispetti)”

Lo stesso vale per una ragazza che indossa minigonne e maglie scollate: la convinzione generale è che lo faccia per  attirare l’attenzione maschile, per mettersi in mostra, e che di conseguenza voglia provocare. La foto qui accanto,  pubblicata su Facebook, ha riscosso commenti del tipo:

che troia però (da parte di una ragazza)

non puoi pretendere il rispetto di un uomo se vai in giro nuda. (da parte di un ragazzo)

Se ci tiene ad apparire così probabilmente non è in cerca di un uomo rispettabile. (da parte di un ragazzo)

se una non è cagna non si veste così… evidentemente lo siete anche voi se sentite il bisogno di difendere il suo ‘onore’ (da parte di una ragazza)

se si veste così e mette in mostra la carrozzeria si capisce cosa va cercando…altro che ”si è vestita così perchè le piace il modello del vestito”…se uno giudica in base alle apparenze è perchè molto spesso le apparenze sono reali…e molto spesso donne come questa sono delle gran cagne (l’Amministra Tope, non censuro il nome perché è fittizio)

L’abbigliamento è anche un modo per esprimere la propria individualità. Ci si veste in un certo modo per sentirsi a proprio agio con sé stessi, per comunicare il proprio stato d’animo, per appartenere ad un gruppo, per affermare la propria identità, e anche per essere apprezzati dagli altri. Questo vale anche per le foto scelte come immagine del profilo su Facebook: si sceglie una foto perché ci si sente rappresentati, perché esprime la propria personalità, perché si ha un bel sorriso, perché è il ricordo di un bel momento e per mille altre ragioni. Il fatto che si fosse in bikini, in shorts o con un abitino non è una buona ragione per permettersi approcci sessuali non graditi (e succede: Io Odio i Maniaci di Merda, su Facebook, raccoglie gli screen di queste molestie virtuali, con una buona dose di ironia).

Libertà è anche poter decidere cosa indossare, o quale foto postare, senza essere giudicati dagli altri per questo. Quello che una ragazza indossa è una questione che riguarda solo ed esclusivamente lei, nessuno dovrebbe sentirsi autorizzato a dare giudizi sulla sua moralità per questo, a fischiarle contro per strada, a fare apprezzamenti volgari, o addirittura a palpeggiarla o stuprarla. La foto che una ragazza mette sul suo profilo riguarda solo lei, non è un invito a molestarla. Giudicare una persona che non si conosce dal suo abbigliamento, o dalle sue foto, è come giudicare una canzone dal titolo o un libro dalla copertina: significa fermarsi all’apparenza, e l’apparenza è sempre condizionata dai nostri preconcetti.

Ogni volta che una ragazza da’ della troia ad un’altra per il modo in cui è vestita, inconsapevolmente non fa che tracciare la vecchia di linea di distinzione della cultura patriarcale, quella tra “madonne” e “puttane”: una divisione che impedisce all’individuo di essere ciò che vuole essere per sé stesso. Neanche “Né puttane, né madonne, ma solo donne” è solo uno slogan: rappresenta la volontà di essere definite solo come persone, solo in virtù della propria individualità, anziché in base ai ruoli fissi previsti dal patriarcato, ruoli che limitavano le possibilità di autodeterminarsi della donna (per non essere bollata come puttana) e le sue aspirazioni (che dovevano consistere solo nell’essere la perfetta madonna, moglie e madre impeccabile).

Rifiutare questa dicotomia significa affermare lo spazio dell’individuo. Uno spazio all’interno del quale lui o lei può ribellarsi a tutti i “dover essere” e decidere cosa vuole essere.

A proposito della distinzione tra “brave ragazze” e “cattive ragazze”, vorrei concludere questo post con le parole di Rosemary Agonito:

La sindrome della ‘brava ragazza’: essere una ‘brava ragazza’ significa mettere sé stessi per ultimi. Significa accontentare gli altri a tutti i costi, soddisfare i loro bisogni e i loro voleri – anche quando questo ci danneggia. Nell’essere protese all’essere piaciute ed accettate, opprimiamo i nostri bisogni e sentimenti, le nostre credenze e valori, per soddisfare quelli degli altri. Come ‘brave ragazze’ non vogliamo ferire i sentimenti di nessuno, quindi non parliamo alle spalle e non lottiamo alle spalle, anche quando siamo sotto assedio. Andiamo avanti, sopportiamo… Una sofferenza prolungata e non ci lamentiamo, la ‘brava ragazza’ è sempre diligente. Ma essere diligente significa sottostare alle regole di qualcun altro, regole che non sono state da noi create.

Nel caso del comportamento sessuale, queste regole sono state definite da secoli di civiltà patriarcale per tenere sotto controllo le ragazze. Ogniqualvolta si ripete lo stereotipo della “madonna vs puttana”, non si fa altro che limare via una piccola, ma significativa, essenziale, parte della nostra libertà. Non voglio sentire mai più, MAI PIÙ, dire che una ragazza stuprata “se l’è cercata”, “se l’è meritata” o “sotto sotto lo voleva” perché indossava una minigonna, era ubriaca, era tornata a casa da sola, aveva accettato di uscire con un ragazzo conosciuto da poco, o qualsiasi altra ragione. Non è colpa sua. Non è mai colpa della vittima. E se, ragazze, pensate questo, vi state ingabbiando da sole.

Lunanuvola's Blog

Un buon numero di voi, amate lettrici (e amati lettori, ma credo che in questo caso la vostra percentuale sia più bassa) arriva qui inserendo nei motori di ricerca frasi correlate alle molestie sessuali in spazi pubblici: molestie in strada, molestie sull’autobus o sul treno, e via così. Azzardo l’ipotesi che il problema vi riguardi personalmente o molto da vicino e che non abbiate trovato nessuno con cui parlarne, o che parlarne vi metta a disagio.

Okay, come forse saprete già uno dei miei “mestieri” è la formazione alla nonviolenza: la quale NON consiste nel subire passivamente la violenza alzando gli occhi al cielo e ringraziando qualche potere superiore per l’alto onore di essere martirizzate anche oggi. La nonviolenza contrasta attivamente la violenza, la smantella, la trasforma, non la condona e non la imita. E poiché le molestie sessuali, in privato o in pubblico, sono violenza, ho di sicuro qualcosa…

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Combattere i preconcetti che ci tarpano le ali I: femminilità e donne lavoratrici

Il femminismo è senza dubbio il movimento più frainteso della storia; per colpa di alcune sue correnti e di esponenti radicali ed estremiste, ma anche a causa delle mistificazioni che la nostra società, ancora fortemente maschilista e legata ad una cultura patriarcale, ha creato per indebolire questo movimento. Un preconcetto molto diffuso è che il femminismo sia equivalente e speculare al maschilismo, ovvero che proclami la superiorità delle donne rispetto agli uomini e voglia capovolgere i rapporti di potere esistenti nella nostra società per dare alle donne il potere e sottomettere gli uomini. Correlata a questo pensiero è l’idea che la parità non sia necessaria, perché i ruoli “naturali” di uomini e donne sono diversi e le rivendicazioni delle donne, spezzando quest’ordine costituito, danneggino la società, per esempio perché non sono più in grado di essere buone madri dal momento che vogliono avere una vita lavorativa, o perché volendo essere come gli uomini hanno distrutto la loro femminilità.

La femminilità, intesa come insieme di tutte le caratteristiche che si associano con una donna, che dovrebbero definire una donna e che dovrebbero appartenere ad una donna, è un costrutto frutto di secoli di stratificazioni culturali. Dal momento che la donna è sempre stata subordinata all’uomo, egli ha sfruttato la posizione dominante per delineare nettamente ciò che è maschile, ovvero virtù come il coraggio, la determinazione, la forza, ecc, e ciò che è femminile, come la grazia, la bellezza, il pudore. Alle donne sono state negate, ponendo come scusa la differenza biologica fra i sessi o altre giustificazioni di natura teologica o filosofica, le qualità che le permettevano di porsi alla pari dell’uomo, e la differenza è divenuta inferiorità. Simone de Beauvoir, autrice de Il Secondo Sesso, è stata la prima ad analizzare con attenzione queste costruzioni e il suo aforisma “donna non si nasce, si diventa” segna la consapevolezza dell’importanza di decostruire le idee imposteci per poter decidere chi vogliamo essere.

Alla luce di questo, è insensato dire che le donne abbiano voluto “essere come gli uomini”, quanto piuttosto riappropriarsi di una parte della vita e dell’essere che gli era stata preclusa, perché considerata propria solo degli uomini. In una società dove le possibilità di esprimersi ed essere di una donna erano nettamente limitate dal confinamento a pochi ambiti, come la cura domestica e la maternità, è una naturale conseguenza che liberandosi e conquistando il diritto di “camminare per le strade del mondo” le donne siano diventate più simili all’uomo, ma non posso considerarlo un disvalore, anzi, al contrario.

Allo stesso modo, la colpevolizzazione della donna che desidera avere una vita lavorativa ed essere madre al contempo è un colpo di coda del vecchio pensiero patriarcale secondo cui all’uomo spetta il compito di lavorare, e quindi trovare il suo scopo nel costruire, realizzare qualcosa di funzionale alla società, qualcosa che sia espressione del suo talento e delle sue capacità, mentre la funzione della donna, e la sua più alta realizzazione, è la maternità, ed essa richiede dedizione totale, fino all’annientamento della propria individualità nel ruolo di madre. Una donna che non si limita al ruolo di madre, che non rinuncia a sé stessa come individuo per annullarsi nella maternità (e non rinuncia al lavoro, che significa indipendenza economica e soprattutto farsi valere in virtù delle proprie conoscenze, capacità e competenze individuali) non può che essere considerata una cattiva madre. Lo stesso non è valido per un uomo: non c’è conflitto tra l’essere un padre ed essere un lavoratore, perché il ruolo paterno non prevede abdicazioni, agli uomini non è mai stato chiesto di scegliere cosa essere. Le donne stanno rivendicando questo stesso diritto, a non dover scegliere, a non dover essere in un certo modo.

Fino a poco tempo fa, durante i primi anni di vita del bambino era solo la madre ad occuparsene, mentre il padre era una figura sullo sfondo, distaccata, che rappresentava l’autorità più che l’amore. Solo di recente i padri hanno iniziato a condividere le cure con le madri, a occuparsi in prima persona dei loro figli, scoprendo una forma di paternità basata anche sull’affetto. Sono stati definiti “mammi”, come se questo li femminilizzasse, snaturasse a tal punto il loro ruolo da non poter essere più chiamati padri: io sono invece convinta che la condivisione della cura di un bambino tra i genitori rafforzi il legame tra loro e tra loro e il figlio, sia una fonte di nuove esperienze e scoperte e aiuti a ridurre lo stress e la fatica derivanti dall’occuparsi del bambino. Il quale, o la quale, crescerà con dei modelli di genere meno stereotipati e imparerà che papà e mamma sono alla pari.

Non c’è un solo modo valido di essere madre, e non è detto che esserlo sia una cosa spontanea e naturale. Per questo ogni donna dovrebbe cercare, ascoltando le proprie sensazioni, le proprie emozioni e i propri pensieri, di capire cosa desidera e di cosa ha bisogno, invece di sforzarsi di aderire al modello proposto dalla società se non lo sente come adatto a sé. è normale che una donna soffra di depressione post partum oppure abbia dei sentimenti negativi nei confronti del bambino, e reprimerli per cercare di corrispondere agli standard della madre perfetta, negando sé stessa, è solo controproducente. L’individuo, donna o uomo, deve sempre venire prima del suo ruolo, madre o padre, e il lavoro è un modo per distaccarsi da questo ruolo genitoriale e trovare una dimensione dove solo la persona conta.

Un modo, quindi, per essere dalla parte delle donne è eliminare dalla propria mente tutti i discorsi che ci impongono un certo modo di essere, un “dover essere” così, sia perché non c’è un modo di essere che sia universalmente valido per tutti, sia perché spesso queste idee nascondono tracce di una cultura patriarcale costruita sull’imporre alle donne di “dover essere” in un certo modo, una cultura che va combattuta affinché ognuno di noi sia più libero indipendentemente dal sesso.

Non avrei saputo dirlo meglio.

In Difesa della Sperimentazione Animale

Dialogare seriamente con gli animalisti è un problema dei più difficili della nostra, diciamo così, “missione”. È effettivamente paragonabile per enormità a quello del dialogo interreligioso: gli animalisti hanno ferme convinzioni morali, le quali non hanno effettivamente un supporto razionale, ma si fondano in ultima analisi (come un po’ tutte le cause morali) su una risposta emotiva di fondo, un interesse personale moralmente rilevante, su una “fede”, sostanzialmente. I cattolici credono che Gesù fosse Dio incarnato, e gli islamici credono fosse solo un profeta, e alcuni ebrei estremisti addirittura lo considerano un eretico traditore. Qualsiasi soluzione necessita di cedimenti da una o più parti. E non solo, nessun cedimento appare possibile, perché la Chiesa non può certo cedere di un passo sul fatto che il Cristo sia il figlio di Dio, né l’Islam può cedere di un passo sul fatto che non lo fosse.
In fin dei conti, credere in…

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Il cetriolo della salute e altre storie di scienza

Vista la grande disinformazione circolante su Internet in merito a questioni scientifiche come la sperimentazione sugli animali, la medicina (con il proliferare di sostenitori di “medicina alternativa” come l’omeopatia o chissà che altro) e la nutrizione (respirariani!), ho pensato di raccogliere una gallery di articoli e siti interessanti dove trovare informazioni obiettive e scientifiche. Il lavoro di debunking, ovvero di correzione delle nozioni false e delle mistificazioni che proliferano su Internet, è una delle cose più importanti ed apprezzabili che gli utenti della Rete possano fare per accrescere la conoscenza ed impedire che la menzogna sia ripetuta e amplificata così tante volte da essere scambiata per la verità. Faccio quello che posso, in mancanza di competenze specifiche per operare questo lavoro di persona, postando una lista di segnalazioni che hanno attirato la mia attenzione per il loro rigore, il livello di approfondimento e la qualità.

  1. Il cetriolo della salute. Questo articolo dimostra quanta passione, competenza e interesse a verificare le fonti possa avere un blogger, più di tanti giornalisti che si limitano a riportare le informazioni più facilmente raggiungibili. Per non parlare dell’ironia e dello stile brillante, un modo di fare informazione leggero e accessibile ma scientifico e inappuntabile. Medbunker è senz’altro un blog curato in modo eccellente.
  2. Animal Research. Sito internazionale che da poco ha creato una versione in italiano per fare informazione sulle tematiche connesse alla sperimentazione animale. Alcune sezioni sono ancora in corso di aggiornamento mentre scrivo questo articolo, ma ritengo plausibile che saranno ampliate in tempi brevi. La ricchezza di fonti internazionali e il rigore ne fanno una risorsa preziosa. L’italiano non è sempre molto fluente, ma gli sforzi fatti per rendere accessibile questa enorme massa di informazioni dovrebbero essere una compensazione sufficiente per questa mancanza.
  3. Se lo dice Report di Dario Bressanini. In quest’articolo si analizzano false notizie riguardo all’ingegneria genetica e si riflette su come gli argomenti scientifici siano trattati in maniera superficiale dai mass media, con conseguente disinformazione e creazione di allarmismi. L’intero blog, ospitato dal Fatto Quotidiano è una lettura interessante e tratta in particolare di OGM, un altro ambito su cui la disinformazione dilaga, e di fatti salienti nelle cronache, il che è utile perché spesso nella grande massa di articoli che si susseguono è utile avere un punto di vista scientifico.
  4. Sperimentazione animale, Garattini: “Una necessità” Reiss: “Inutile e dannosa”. Un articolo del Fatto Quotidiano in cui si comparano le motivazioni a favore e contro la sperimentazione animale intervistando due scienziati, Silvio Garattini e Claude Reiss. Il contraddittorio è un’abitudine che sembrava perduta nel giornalismo (lo stesso Fatto Quotidiano ha pubblicato articoli scandalosamente mistificanti e di parte, che sono stati confutati dal blog In Difesa della Sperimentazione Animale). L’articolo dimostra la volontà di essere obiettivi e può essere utile per comparare punti di vista differenti.
  5. Pro-Test: standing up for science. Pro-Test è un’associazione senza scopo di lucro inglese, fondata nel 2006 dal 16enne Laurie Pycroft, il cui obiettivo è, citando dal sito, contrastare gli argomenti irrazionali degli antivivisezionisti, aumentando la consapevolezza dei benefici della sperimentazione animale presso la pubblica opinione e creando un ambiente dove gli scienziati possano parlare del loro lavoro ed essere orgogliosi dei loro contributi alla società, che ha il merito di aver reso minoritarie le posizioni animaliste e antispeciste nel Regno Unito, spingendo scienziati e politici a parlare in difesa della ricerca. Il sito è articolato in varie sezioni, di cui è interessante soprattutto quella intitolata “Facts”, che raccoglie sottosezioni di FAQ, etica, dati, benefici della sperimentazione animale, metodi “alternativi” e farmaci e malattie, e lo spazio di blog, non più aggiornato dal 2011 ma ricco di articoli esplicativi sulle più recenti scoperte che coinvolgono l’uso di animali. Il sito è finora disponibile solo in inglese, ciononostante raccomando una visita a chiunque abbia un buon livello di comprensione di questa lingua.
  6. Pro-Test Italia e pro-test.it.. La versione italiana di Pro-Test finora ha una pagina su Facebook in lingua italiana, aggiornata ad intervalli piuttosto brevi con link e note più approfondite, e un sito, finora ancora in stand-by (nota: all’ultimo aggiornamento dell’articolo, diversi contenuti inerenti all’associazione sono stati aggiunti al sito). La pagina Facebook non parla solo di sperimentazione animale, ma interviene per confutare ogni forma di mistificazione antiscientifica, come le cure al bicarbonato contro il cancro, le campagne contro le vaccinazioni, eccetera. Particolarmente interessanti sono le confutazioni “punto per punto” delle affermazioni di esponenti di spicco delle associazioni animaliste-antivivisezioniste, che dimostrano la fallacia delle loro argomentazioni e contrappongono alle loro affermazioni solidi dati.
  7. Sperimentazione animale, l’approccio laico. Un articolo di Cronache Laiche su globalist.it che, pur parlando di “vivisezione” invece che più propriamente di “sperimentazione animale”, propone una riflessione obiettiva sulle critiche alla sperimentazione stessa da parte degli animalisti.

Provvederò ad aggiornare questa lista ogniqualvolta troverò articoli o siti che meritino una segnalazione 🙂