Medioevo Maschio, di Georges Duby (parte 17)

Proseguiamo questa escursione nel lungo capitolo 12 del libro di Georges Duby, un’indagine approfondita che unisce riflessioni metodologiche a un contenuto dettagliato per descriverci i cambiamenti culturali prodotti dagli intellettuali cristiani nella Francia medievale del XII secolo. Come dicevo nella puntata precedente, è il rigore metodologico che permette di giudicare le conclusioni nella scienza. Qui aggiungo che è importante mostrare che il Medioevo, un’epoca che ricordo durò più di otto secoli, non è un blob indistinto dove tutto è rimasto uguale. Parliamo di otto secoli, la Storia non può – logicamente – essersi congelata. Ma è difficile cogliere quando e dove i cambiamenti sono avvenuti nel modo in cui il Medioevo è spiegato nelle scuole. Torniamo quindi al punto con Duby e vediamo uno di questi snodi: l’arricchimento della nobiltà si coniuga con un ethos più favorevole alla crescita e al progresso, all’idea che l’umanità possa migliorare l’esistente e slanciarsi verso un futuro che ha il potere di rendere migliore.

Veniamo così al concetto di patronato. “I surplus dello sfruttamento signorile, in continua crescita, furono in parte impiegati in creazioni culturali. Questa parte fu evidentemente più larga nelle signorie ecclesiastiche”. Ci fu una riforma della Chiesa che “determinò la riorganizzazione degli aspetti temporali delle istituzioni religiose. Si attenuarono le spoliazioni dei laici, l’incuria amministrativa che faceva perdere una buona parte dei profitti. […] I guadagni provenienti da questi interventi compensavano largamente il danno subito dalla fortuna ecclesiastica per la diminuzione delle terre offerte dall’aristocrazia laica in luogo di elemosine. Protetta, meglio gestita, questa fortuna offrì risorse più abbondanti. Particolarmente prospere diventarono le chiese situate in ambiente cittadino. Esse partecipavano dei profitti delle fruttuose tasse riscosse nelle città in sviluppo sulla circolazione e gli scambi. Raccoglievano le pie donazioni della borghesia, tanto più generosa quanto meno gli uomini d’affari erano sicuri della loro salvezza. […] D’altro lato la riforma collocò nei posti con funzioni decisionali dei prelati di qualità che […] ritenevano che le risorse della loro casa dovessero servire a sviluppare gli studi, a promuovere l’attività dello scriptorium e della cantoria, a circondare le liturgie di uno scenario più sontuoso”.

La Chiesa decise d’intraprendere tutta una serie di costruzioni di edifici magnifici, che furono spesso sovvenzionati da benefattori laici perché i loro costi eccedevano ampiamente le risorse degli ordini monastici e delle loro comunità. Duby sottolinea “un fatto reale che permise effettivamente la realizzazione dei progetti: la messa in circolazione delle riserve di metalli preziosi accumulati nei santuari”. I patroni laici intervennero nel finanziare queste edificazioni “in primo luogo perché la crescita economica e i meccanismi dei prelevamenti signorili facevano sì che la moneta si ammucchiasse nelle loro mani. Ma soprattutto perché si sentivano obbligati a dedicare la loro ricchezza a questa sorta d’impresa. Nell’alto Medioevo ci si aspettava che i re cooperassero all’abbellimento dei monumenti religiosi. […] La consacrazione soprattutto li collocava fra gli oratores, fra gli officianti delle liturgie, e questo imponeva loro di partecipare alla cultura ecclesiastica. Cooperavano direttamente alla sua fioritura mantenendo nel loro palatium quel focolaio creativo fondamentale che era la cappella, e tutti gli studi, d’arte, di scrittura, di pensiero, ad essa connessi; spandendo i loro benefici sulle cattedrali e sulle abbazie reali; infine assicurando la pace, propizia ai lavori spirituali. Il patronato fu all’origine funzione specifica del re, rappresentante di Dio in terra. Ora, nel secolo XII, è l’aristocrazia intera che pretende di assolverla”.
D’altronde la feudalità è definibile come “l’appropriazione, da parte di un crescente numero di principi, delle prerogative della sovranità. I principi si sono impadroniti del potere del re; ma […] vollero anche adornarsi delle sue virtù”. “Tutti i signori responsabili della sicurezza del popolo si considerano anche responsabili della sua salvezza. È dunque loro dovere di congiungere, come una volta facevano solo i sovrani, la cultura della scuola e la pratica delle armi. […] Nel secolo XII tutti sono persuasi che gli utili prelevati dai signori laici sul frutto del lavoro contadino non devono servire solamente a fare la guerra per la difesa pubblica. Questo prelievo fiscale sembra giustificato solo se in parte impiegato a far progredire la cultura e fiorire l’arte sacra”. A quell’epoca, a rendere più consistente l’aliquota degl’introiti signorili laici devoluti alle opere dello spirito, interviene anche l’incitamento all’austerità. In effetti la predicazione di penitenza, che esorta allo spirito di povertà, alla rinunzia alle ricchezze del mondo, a bandire dalle corti il lusso eccessivo, in tutto il corso del secolo XII viene assumendo una vasta portata. […] Nella misura in cui le esortazioni all’austerità furono ascoltate, esse incanalarono verso le istituzioni religiose, ossia verso i prodotti della cultura, un po’ del danaro che i grandi avrebbero speso per il loro piacere e per la sontuosità della loro casa. Esse contribuirono così a promuovere la «Rinascita»”.
Bisogna infine prendere in considerazione l’irresistibile mimetismo che, finendo di volgarizzare il modello del comportamento reale, incitò progressivamente tutti i livelli della società aristocratica, fino ai più bassi, a imitare gli atteggiamenti dei principi, ossia quelli dei re. Nella misura in cui la cavalleria assunse carattere sacro, prendendo l’andamento di un «ordine» cui si accedeva attraverso il «sacramento» della vestizione, tutti gli adulti della casta militare si sentirono chiamati a non limitarsi a dar prova di valore fisico, ma a coltivare la virtù della prudentia, a non condursi più soltanto da prodi ma da uomini saggi, a partecipare in qualche modo […] all’alta cultura, a favorirla con la loro libertà”.

Cresce il bisogno di erudizione. “Dalla fine del secolo XI si moltiplicano le testimonianze a proposito di ragazzi che non appartengono all’alta nobiltà, che non sono destinati allo stato ecclesiastico, e che tuttavia vengono istruiti nella casa paterna da precettori o mandati alle scuole, che, comunque, imparano a leggere e a capire un po’ di latino. L’uso di affidare a chierici i propri figli perché li educhino si va diffondendo senza posa. Alla fine del secolo XII comincia a oltrepassare i confini della società cavalleresca. […] Si fecero delle spese per mantenere dei chierici che ci si aspettava aiutassero nell’istruzione della famiglia e, al tempo stesso, nell’amministrazione della signoria”. Così, “la generosità dell’aristocrazia laica provvide a moltiplicare i posti che assicuravano a […] «intellettuali» i mezzi di lavorare e di diffondere intorno a sé la cultura”, uomini che “ebbero una parte decisiva nel successo della «Rinascita»”.
Infatti, scrive Duby, questi chierici al servizio dei nobili laici “furono gli agenti principali di quell’acculturazione che, attorno alla nozione di cavalleria, trasferì nell’ideologia nobiliare certi valori e certe tecniche propri della cultura dotta”. Duby sottolinea la necessità di intraprendere uno “studio economico e sociale delle istituzioni scolastiche” in cui venivano formati questi chierici. “Permetterebbe di vedere ancora più chiaro nell’incidenza della crescita materiale, nella funzione del danaro, sollecitato dagli scolari presso le famiglie, guadagnato dai maestri […]; si valuterebbe meglio anche la funzione del patronato, delle sovvenzioni concesse dai prelati e dai principi, la cui attenta liberalità si dispiegò in questo settore dell’attività culturale molto prima che, all’estrema fine del secolo, fossero fondati i primi collegi per studenti poveri. Si vedrebbe meglio che l’ambiente scolastico […] fu allora il luogo della più viva capillarità sociale”.
Ora, se la popolazione delle scuole durante il secolo XII crebbe senza posa, era perché, dopo gli anni di studio, gli sbocchi si aprivano sempre di più su carriere tra cui le più accessibili e quelle che più attiravano non erano ecclesiastiche. La società laica reclamava i servigi di uomini provvisti di una tale formazione. Era pronta a pagarli cari e tutto il danaro che l’aristocrazia, grande e piccola, sacrificò per annettersi […] dei giovani che sapevano maneggiare parole e cifre, che sapevano ragionare e avevano una qualche infarinatura delle scienze del quadrivium, autorizza a considerare l’aristocrazia nel suo complesso come la vera patrona dell’approfondimento e della diffusione del sapere”. Così, “reclutati sempre più numerosi nelle scuole dove la loro funzione […] era sempre meglio retribuita, questi intellettuali furono gli artefici dell’incontro fra cultura laica e cultura dotta, ossia i diffusori più efficaci di una «Rinascita» di cui la scuola era la grande officina”.

Medioevo Maschio, di Georges Duby (parte 16)

Siamo arrivati – e vi ringrazio di aver sopportato questa lunga serie di post monotematici – al dodicesimo capitolo di Medioevo Maschio, che, sulla scia dei precedenti della terza parte, si allontana dalle tematiche relative alle strutture di parentela, al matrimonio e alla condizione femminile per dedicarsi in modo più ampio alla storia della cultura. Il titolo infatti è La «Rinascita» del secolo XII. Ascolto e patronato. Il merito principale di questi capitoli è fornirci una prospettiva sul lavoro dello storico, ed è per questo che sto riportando con cura le osservazioni metodologiche di Duby. Capire come uno storico – o uno scienziato in generale – è arrivato a una conclusione è più importante della conclusione stessa, perché ci permette di giudicare da soli il valore di quella conclusione. Anche questo capitolo sarà diviso in tre parti, in modo da non dover sacrificare lo sviluppo dell’argomentazione, ma poterla riproporre intatta. 

Uno dei principali problemi che si pongono oggi alle scienze dell’uomo è quello dei rapporti tra i fenomeni culturali e il movimento d’insieme delle strutture economiche e sociali, o […] fra le infrastrutture materiali e le sovrastrutture, cioè, nel caso presente, la produzione e la recezione di oggetti culturali considerati, dai contemporanei o da noi, come l’espressione di una «Rinascita»”, esordisce Duby. È un problema perché “non esiste una base teorica su cui costruire la problematica preliminare della ricerca; il lavoro è considerevolmente ostacolato dal fatto che oggi le varie discipline sono distribuite in compartimenti stagni, dalle frontiere che nelle università e negli istituti di ricerca tengono ancora spiacevolmente gli storici dell’economia e della società separati dagli storici del pensiero, della letteratura e dell’arte; […] nel mondo attuale si potrebbero contare sulle dita di una sola mano i luoghi dove la ricerca può essere condotta in un regime di indiscutibile interdisciplinarità”. Così, per tentare di mettere sul piatto il problema, Duby lancia delle proposte di indagine su questo tema.

Il processo di sviluppo che […] chiamiamo la «Rinascita» del secolo XII è evidentemente inseparabile dal lungo movimento di progresso materiale di cui l’Europa occidentale fu allora il luogo. […] Notiamo che è meno malagevole fissare cronologicamente le manifestazioni dello sviluppo culturale. Le fonti di cui disponiamo sono infatti per loro natura più adatte a gettar luce su questo genere di fatti, mentre […] non permettono di seguire da vicino l’evoluzione economica e sociale”. Cosa avvenne nel dodicesimo secolo? In primo luogo, “la diffusione dello strumento monetario: i primi segni di tale diffusione compaiono verso il 1080 nei documenti concernenti le campagne del Mâconnais; cento anni più tardi il danaro è dappertutto […] e nessuno […] può dispensarsi dal farne uso quotidiano”; poi, “l’estensione della superficie coltivabile” e “lo sviluppo demografico […] che raggiunge la maggiore intensità nell’ultimo quarto del secolo XII”. Veniamo ora alle cause. “Gli organi della fiscalità signorile istituiti in Francia intorno all’anno mille, si sono perfezionati durante gli ultimi due decenni del secolo XI; durante tutto il secolo XII funzionano alla perfezione. Per corrispondere alle esigenze dei padroni del loro corpo, della terra che coltivano e di ogni potere su di loro, le famiglie contadine devono produrre sempre di più; non risulta che il loro livello di vita si elevi in modo apprezzabile prima degli anni ’80 di questo secolo. Effettivamente, il sistema dei benefici feudali e delle tasse trasferisce nelle mani del signore la maggior parte del sovrappiù di risorse determinato dall’ampliamento dell’area agricola, dall’aumento dei rendimenti e dal moltiplicarsi del numero dei lavoratori”. L’aristocrazia si rafforza anche “riducendo sensibilmente le donazioni di terre e di diritti alle chiese; soprattutto limitando le nascite, impedendo ai tronchi familiari di ramificarsi e, per questa via, di spezzettare le eredità. L’esclusione delle figlie maritate e dotate dalla divisione successoria, il mantenimento di tutti i figli maschi, eccetto uno, il maggiore, nel celibato, assicurò […] la stabilità del numero dei lignaggi nobili, e quindi del loro patrimonio, mentre la crescita economica e i perfezionamenti della fiscalità signorile ne elevavano senza posa gl’introiti”.

L’aumentata ricchezza dell’aristocrazia portò ad un aumento dei consumi, che a sua volta si tradusse in uno sviluppo dell’artigianato specializzato nei prodotti “di lusso” e del commercio, e questo favorì lo sviluppo urbano “a tal punto che negli ultimi due decenni del secolo […] si assiste al trasferimento dei poli di sviluppo nelle città. […] Tutto ciò serve di sostegno a due gruppi sociali, all’élite della borghesia mercantile e al corpo dei servitori delle grandi signorie. Questa gente si arricchì. Certuni diventarono più facoltosi di molti nobili. Ma il loro ideale rimase d’integrarsi alla nobiltà rurale, di essere ammessi a farne parte, di condividerne lo stile di vita e la cultura”. Abbiamo già visto, nei capitoli precedenti, sia le trasformazioni riassunte qui sopra, sia uno dei suoi effetti: “l’emergere di un sistema ideologico proprio dell’aristocrazia laica”, centrato sulla cavalleria, sui rituali dell’amor cortese, sul servizio dei «baccellieri» verso il signore. Duby richiama l’attenzione su un fatto: “il risorgere nella letteratura profana del vecchio schema della società con tre funzioni, ma trasformata, dissacrata: all’«ordine» dei cavalieri veniva riconosciuta la preminenza, non solo sui «villani», ma anche sugli oratores. I […] monopoli culturali che fino ad allora erano stati nelle mani della Chiesa vengono messi in discussione. La società cavalleresca pretende di partecipare anch’essa all’alta cultura. Il suo sogno è di annettersi il «clero», inteso come il sapere delle scuole. Così tende a sfumare la distinzione di natura culturale che separava la parte ecclesiastica dalla parte laica dell’aristocrazia”.

In questo contesto si situa un altro fatto chiave, “suscitato direttamente dallo spettacolo di un mondo che lo sforzo degli uomini arriva a trasformare, di una valorizzazione sempre più spinta dell’ambiente naturale: è la presa di coscienza del progresso. Si comincia con l’avvertire il rafforzarsi di questo sentimento fra gli intellettuali più strettamente legati all’aristocrazia laica, fra i membri dei capitoli delle cattedrali […]. Questi uomini di scienza, questi uomini della cultura scritta e della riflessione intellettuale si danno alla celebrazione della natura. […] Si rappresentano sempre più chiaramente l’uomo – la cui struttura profonda è omologa a quella dell’universo creato – come un essere capace di agire su questo, come chiamato da Dio a cooperare con tutte le sue forze a quest’opera, concepita ormai in una continuità temporale che è la creazione. Qui […] nasce l’idea che la civiltà cresce come una pianta, che ogni generazione prende dalle mani della precedente il compito che deve portare più avanti, verso la sua compiuta realizzazione”.
Si tratta di un completo arrovesciamento della visione della storia umana. Questa non è più guardata con pessimismo, come un processo d’inevitabile corruzione. Si presenta, al contrario, come una conquista. […] Il suo cammino, ormai parallelo a quello della storia della salvezza, non sembra più condurre a immancabile decadenza, ma elevarsi […] verso una maggior perfezione”. Duby completa la sua argomentazione descrivendo il pessimismo precedente attraverso l’esempio dei monaci cistercensi, che partivano dalla convinzione che “ogni forma si degrada nella durata” e sostenevano la necessità di “tornare ai principi primitivi della vita benedettina”. “Fedeli allo spirito del contemptus mundi, espressione fondamentale di una ideologia che si era formata nel tempo di regressione e di stagnazione, scelsero di separarsi dai movimenti della vita, di fuggire nel deserto. Per loro il lavoro manuale, a cui scelsero di costringersi, restava un valore negativo, un atto d’umiliazione e di penitenza. Tuttavia questi uomini si affrettavano a mettere in uso tutto ciò che vi era di più moderno nelle innovazioni tecniche; si accanirono a rendere sempre più produttivi i terreni incolti su cui si erano stabiliti […] finendo col situare le loro proprietà agricole all’avanguardia del successo economico; soprattutto, collocando il mistero dell’incarnazione al centro della loro meditazione, proclamando […] che, nell’uomo, le tensioni dello spirito verso la perfezione non sono dissociabili da quelle del corpo, finirono con l’unirsi anche loro alla riabilitazione del carnale”.

Tutto quello che abbiamo descritto “modificò fondamentalmente il contenuto della parola renovatio. Un tempo, ogni rinascita si assegnava come punto d’arrivo di restaurare, di strappare all’inevitabile deterioramento per renderle al primitivo splendore opere giudicate mirabili perché erano l’eredità di un’età anteriore e per questo migliore: rinnovare significava esumare. Ormai ogni rinascita fu ritenuta generativa. Riprendeva in mano l’eredità, ma per sfruttarla […] i moderni si ritennero capaci, non solo di uguagliare gli antichi, ma di superarli”.

Medioevo Maschio, di Georges Duby (parte 15)

Abbiamo dedicato tre puntate di questa serie di post al solo capitolo 11 del libro di Duby perché ritengo che meriti che l’argomentazione sia sviluppata in tutta la sua ricchezza, piuttosto che riassunta dovendo tagliare troppi pezzi. Sarebbe scarnificare quello che definisco uno dei suoi capitoli migliori. Qui, infatti, vediamo come nel Medioevo la cultura cristiana – e gli intellettuali cristiani – dovettero reagire al confronto con la cultura musulmana, che non potevano liquidare come “primitiva”. Abbiamo visto che tipo di contesto culturale era: intellettualmente vivace, ma non tanto aperto al cambiamento quanto potremmo pensare sentendo la definizione “intellettuali”.

In tutto questo, secondo Duby si verificano due sole “modificazioni notevoli”. La prima è “una presa di coscienza della relatività. Prima di tutto della relatività del tempo. Esso non è più […] concepito come un blocco omogeneo, in cui il passato e l’avvenire aderirebbero al presente, stabilendo con esso dei rapporti anagogici [l’anagogia è l’interpretazione spirituale della «lettera», tesa verso il superiore «intelletto» di realtà spirituali e divine, secondo il vocabolario Treccani, ndr]”. Corollario di questa nuova idea è “la scoperta progressiva dell’immensità, della diversità, della complessità della creazione, la nuova coscienza del fatto che l’universo è pieno di uomini che rifiutano d’intendere il messaggio del Cristo, [che] obbligano i più illuminati a pensare che la cristianità forse non è situata al centro del mondo, o per lo meno che essa ne occupa solo un settore limitato. E allo stesso modo devono ben riconoscere che il pensiero cristiano si trova ad essere incapace di assorbire il blocco coerente del sistema aristotelico o di scomporlo nelle sue parti”.

La seconda modificazione è nel fatto che “molti degli uomini di cui parliamo hanno accolto senza esitazione il gusto di una felicità terrestre, di quella felicità che, secondo Jean de Meun, era stata offerta all’uomo nel mattino della creazione, di una gioia di vivere che gli arretramenti della Natura e della Ragione davanti alle offensive dell’ipocrisia sono venuti a compromettere, ma di cui spetta ai filosofi di promuovere la restaurazione”.

Sono modifiche che Duby definisce “nettamente meno rilevanti” di quelle che avvengono in altre sfere, “nell’attività economica, della demografia, nel giuoco dei poteri. I sistemi di valori non sono immobili; la trasformazione delle strutture materiali, politiche e sociali ne tocca le basi e le fa evolvere, ma si tratta di un’evoluzione che si svolge senza fretta e senza scosse, perfino negli ambienti culturali d’avanguardia, la cui funzione specifica è di lavorare all’adattamento dei sistemi stessi”.

Lo storico francese a questo punto inserisce una riflessione sulla questione “della prevedibilità di tali mutamenti”. “Il compito dello storico è di proporre delle spiegazioni a cose fatte, ossia di mettere ordine nei fatti che si presentano alla sua osservazione, di stabilire delle relazioni fra essi, e d’introdurre così una logica nello svolgimento di un tempo lineare. Da questo medesimo tentativo è portato a mostrarsi in primo luogo più attento alle novità, scoprirle, […] per metterle in evidenza, dall’ampia corrente di abitudini e di routines […]; è portato, d’altro lato, quando vuol rendere conto di queste novità, a privilegiare la necessità in rapporto al caso. E questo più particolarmente quando le novità si collocano a livello non di evento ma di strutture”. Così, lo storico giunge a delineare una relazione “fra l’espansione della gioia di vivere, la scoperta della relatività e, d’altronde, lo slancio della prosperità cittadina, la caduta delle barriere nell’Occidente, l’ascensione di certi gruppi sociali, il lento logorio dei miraggi della Gerusalemme celeste e il perfezionarsi dello strumento sillogistico”. Tuttavia, lo storico deve guardarsi dal rischio di cadere in una concezione deterministica della Storia: “consapevolmente o no, si schiera a favore […] di tutte le concezioni che si basano su una concatenazione di cause determinanti la successione delle età dell’umanità, che […] si danno a costruire su una esperienza del passato un vettore di cui suppongono che l’orientamento debba prolungarsi nel futuro”.

“L’obiettivo principale che, secondo me, deve porsi la ricerca attuale di storia sociale è precisamente di chiarire la maniera in cui si articolano i movimenti discordi che animano l’evoluzione delle infrastrutture e quella delle sovrastrutture e in cui questi movimenti si ripercuotono l’uno sull’altro”. Duby descrive come “la dissociazione delle relazioni di dipendenza personale in seno alla signoria medievale si presenti senz’altro come conseguenza diretta dell’azione di tendenze a lunga durata, del perfezionamento delle tecniche di produzione agricola, della crescita della popolazione e della diffusione dello strumento monetario” e argomenta che all’epoca in cui avvenne nessuno era stato in grado di prevederla, e così il potere dei feudatari fu eroso e la corona si rafforzò. Lo storico confronta questa situazione, esito appunto di tendenze di lungo periodo, con altri fenomeni che ritiene più inaspettati: “chi, invece, avrebbe potuto predire il brusco avvento […] di un’estetica della luce, lo stabilirsi dei riti dell’amore cortese in contrappunto a un’evoluzione delle strutture della famiglia aristocratica e della morale coniugale proposta dalla Chiesa, oppure i destini dell’eresia valdese e le forme che rivestì la devozione francescana quando fu «addomesticata» dall’autorità pontificia?”.

Egli argomenta quindi che le uniche previsioni che forse ha senso fare sono quelle che riguardano “la probabile continuazione delle tendenze profonde che mettono in moto la storia dell’economia, quella della popolazione e delle tecniche, e forse quella della conoscenza scientifica; questo senza nascondersi che le ripercussioni di un movimento d’opinione, di una propaganda o delle decisioni del potere possono, in qualunque momento, deviarne sensibilmente il corso”. E tutte queste previsioni devono, come condizione necessaria ma non sufficiente, poggiare su un metodo storiografico il più possibile rigoroso. Nel caso della storia dei valori, argomento di questo capitolo, Duby scrive: “Se si ammette che il rivestimento ideologico […] è con assoluta evidenza modificato dal movimento delle infrastrutture, ma che tende a rispondere con lenti riflessi, la cosa importante sembra sia osservare in primo luogo nel presente le tendenze di maggior peso, tutto ciò che, sul piano dell’evoluzione demografica e della trasformazione dei rapporti economici è suscettibile di provocare gli adattamenti in questione, scuotendo i quadri del pensiero, stimolando o ostacolando le comunicazioni tra gruppi, favorendo i transferts, gli sradicamenti, gli scambi e le fusioni. Importa, in secondo luogo, scoprire i punti dove le resistenze della tradizione sembrano più fragili, mettere alla prova la rigidezza dei sistemi d’educazione, in seno alla famiglia, alla scuola, a tutti gli organismi d’iniziazione e d’apprendistato; misurare la loro capacità di accogliere gli apporti esteriori, e il potere d’assimilazione di una certa rappresentazione del mondo di fronte alle possibili irruzioni di elementi proiettati dalle culture esteriori”.

Le parole conclusive del capitolo sono splendide: “Lo storico infine ha il dovere d’insistere sull’importanza stessa della storia, come elemento particolarmente attivo fra quelli che compongono un’ideologia pratica. In larghissima misura, la visione che una società si forma del proprio destino, il senso che, a torto o a ragione, essa attribuisce alla propria storia intervengono come una delle armi più potenti delle forze di conservazione o di progresso, cioè come uno dei sostegni più decisivi di una volontà di salvaguardare o di distruggere un sistema di valori, come il freno o l’acceleratore del movimento che […] porta alla trasformazione delle rappresentazioni mentali e dei comportamenti”.

 

Medioevo Maschio, di Georges Duby (parte 14)

Nella puntata precedente della serie eravamo rimasti all’undicesimo capitolo della raccolta di saggi di Georges Duby che stiamo trattando ormai da maggio e che sta arrivando alla fine. Avevo optato per dividere in più parti il capitolo, perché si tratta di uno dei più densi del libro. Riprendiamo dunque lo sviluppo dell’argomentazione di Duby sul cambiamento nei valori, nella mentalità collettiva e nella cultura con degli esempi.

Duby ci propone di osservare “un ambiente che si può credere dei più disposti ad accogliere delle novità, quello degli uomini di studio che si riunirono a Parigi durante il Medioevo centrale. Il loro luogo d’incontro: uno dei principali del mondo; un agglomerato urbano in continua crescita, la cui popolazione si trovava […] agitata dalle correnti dell’economia e, nel cuore del più grande Stato d’Occidente, dal via vai dell’azione politica; il punto di concentrazione, infine, di tutti coloro che, da un capo all’altro della cristianità latina, sentivano più vivo il bisogno di conoscere”. Questi studiosi si occupavano di “un insegnamento professionale che mirava a formare i membri eminenti del clero”, ma l’insegnamento è una professione che “mette chi lo esercita di fronte a esseri più giovani di lui le cui esigenze lo stimolano a spingersi più avanti”, ed è una professione che prevede “metodi di lavoro fondati sul dialogo, la disputa, la libera discussione, su uno spirito di competizione […], quindi sulla contestazione delle idee comunemente accettate”. Così, Duby si propone di “ricostruire il sistema di valori com’era accettato, da un lato, verso il 1125, dai contemporanei di Abelardo, d’altro lato, verso il 1275, dai contemporanei di Jean de Meun”, e parte dal contestualizzare i cambiamenti avvenuti in quei 150 anni: “al tempo di Abelardo le città emergono appena dalla circostante campagna; la circolazione monetaria ha di recente ripreso vigore, ma la sola ricchezza è ancora la terra; il solo lavoro è quello dei campi, qualunque sia ormai l’importanza della produzione artigianale stimolata dalla propensione al lusso ostentato di un’aristocrazia che la crescita agricola, da un secolo, rende meno bisognosa; per tutti gli uomini un’esistenza interamente dominata dai ritmi e dalle pressioni dell’ambiente naturale”.

All’epoca di Jean de Meun abbiamo, invece, “una popolazione senza dubbio tre volte più numerosa; delle campagne che hanno raggiunto una sistemazione definitiva, ma che si trovano ormai, economicamente e politicamente, a dipendere dalle città; all’interno di queste, dei modi di vivere che […] si sottraggono all’oppressione della fame, del freddo e della notte; il danaro, che è diventato il principale strumento di potere, la molla delle promozioni sociali”. Parlando delle relazioni politiche, invece, Duby nota che all’inizio del secolo XII, al tempo di Abelardo, esse “si trovano del tutto inserite nel quadro della signoria, il che significa per la massa dei lavoratori un completo assoggettamento ai signori dei castelli e ai capi dei villaggi; per i più ricchi, la specializzazione militare, i profitti delle spedizioni per rapina, il rifiuto di tutti gli obblighi, salvo quelli che scaturiscono dall’omaggio, dalla concessione feudale e dalla sottomissione agli anziani del lignaggio”. Invece, al tempo di Jean de Meun troviamo “uno Stato vero e proprio, basato su un’armatura amministrativa abbastanza perfezionata perché possa rinascere una nozione astratta dell’autorità e perché la personalità del sovrano sparisca dietro quella dei suoi servitori; […] la ritualizzazione dell’arte della guerra […]; regole giuridiche messe per iscritto e messe in mano di professionisti della procedura; […] un senso di libertà che si rafforza in seno alle associazioni di uguali, di tutti i gruppi di mutui interessi che si annodano ai vari livelli della società e che sono abbastanza vigorosi […] per suscitare i primi scioperi”.
In questi 150 anni non si sono solo verificate trasformazioni nelle strutture sociali, ma anche eventi di grande portata come: “lo sviluppo e il fallimento dell’avventura della crociata, il saccheggio, in Spagna, in Sicilia, a Costantinopoli, delle culture superiori il cui fulgore un tempo rendeva più irrisorio il carattere rozzo della civiltà carolingia; uno stupefacente indietreggiamento dei confini dell’universo, l’irrompere dell’Asia mongola, la marcia di Marco Polo verso Pechino, la penetrazione dei confini africani e asiatici […] da parte di trafficanti e di missionari, che si abituano a parlare altre lingue e ad utilizzare altre misure”, e poi lo sviluppo e la repressione di numerose eresie in seno al cristianesimo.

Duby definisce questo ambiente culturale come “penetrato dall’esigenza della verità, dalla sete di capire e dal gusto del moderno”, ma nonostante questo il sistema dei valori non si modifica in modo radicale come tutti gli altri sistemi appena descritti. “Senza dubbio, il primato della ragione è, verso il 1275, esaltato con maggior deliberazione […]. Ma due generazioni prima della stessa generazione d’Abelardo, Berengario di Tours proclamava la ragione «onore dell’uomo»; e la chiara visione delle cose che, valendosi dello strumento razionale, i contemporanei di Jean de Meun si sforzano di raggiungere, procede, infatti, dal paziente uso dei meccanismi logici che i maestri delle scuole parigine insegnavano ad utilizzare, nei primi anni del secolo XII, per dissipare l’ambiguità dei segni di verità sparsi nei testi sacri e nello spettacolo del mondo visibile”. Non si tratta quindi di un’innovazione nel sistema culturale, ma della prosecuzione di un fenomeno già presente. “Lo spirito critico, nel 1275, affronta con audacia tutto ciò che gli intellettuali dell’epoca chiamano finzione, le ipocrisie della devozione, la sottomissione dei bigotti alle disposizioni pontificie, i privilegi della nobiltà del sangue che Abelardo, perfettamente integrato in questa categoria sociale che non rinnegava, non aveva per nulla pensato di mettere in discussione, fino agli eccessi dei giuochi di cortesia, che lo stesso Abelardo si era sforzato di praticare come meglio poteva, e alle sofisticazioni dell’etica mondana. Ma anche a questo proposito […] una simile tendenza alla contestazione, una simile aspirazione all’onestà e alla misura, caratterizzavano i maestri di Parigi nel primo quarto del secolo XI; se non miravano alle stesse cose è solo perché i problemi che nascevano dall’ambiente sociale, politico, morale non si ponevano nei medesimi termini”.

Il fatto che siamo di fronte a sviluppi graduali di idee e valori preesistenti e non a radicali innovazioni, secondo Duby si applica anche ad altre idee, come l’attenzione verso la natura, la “volontà di scoprirne le leggi, di giungere alla chiara comprensione di un ordine naturale «da cui scaturiscono le vie oneste», e di raggiungere così i fondamenti solidi di un’etica e di una fede”. Certo, il cristianesimo, pur essendo un ordine culturale così dominante da non essere nemmeno pensabile non essere credenti, non è rimasto cristallizzato nel tempo: il cristianesimo degli intellettuali di cui parla Duby “si presentava con un volto nuovo; si mostra molto più libero, di quanto non fosse centocinquant’anni prima, dalle terrificanti prosternazioni e dall’involucro del ritualismo, orientato ormai verso un Dio sofferente e fraterno, con cui l’uomo può tentare il dialogo; molti di loro […] si mettono allora per le vie del misticismo”. La conoscenza filosofica prosegue ma “ciò che di fatto si mostra più nettamente sono delle persistenze: quella di una tecnica d’analisi; quella di un desiderio di capire fatto più acuto dai metodi e dagli obiettivi di un insegnamento; quella di esigenze morali governate da una certa situazione in seno alla società; quella di una visione di un universo naturale e soprannaturale fondata su testi interpretati sempre meglio”.