“Quote rosa” e meritocrazia: un’intervista a Simona Cuomo

Quando fu approvata la legge Golfo-Mosca (2012) sulle cosiddette “quote rosa”, che sanciva un obbligo di presenza del genere meno rappresentato pari al 30% nei consigli di amministrazione delle aziende (una legge volta a promuovere la partecipazione femminile, ma non necessariamente applicabile solo alle donne), il dibattito era imperniato sul pregiudizio secondo cui le “quote” sono antitetiche alla meritocrazia. Da allora, il pregiudizio si è consolidato e per una femminista è difficile “difendere” le quote senza essere accusata di voler creare una corsia preferenziale per le donne a prescindere dalle loro capacità, e quindi di considerare le donne come soggetti vulnerabili (come panda, secondo la metafora più usata: una specie protetta che ha bisogno di un habitat creato su misura per sopravvivere) che hanno bisogno di essere protette dalla competizione con gli uomini. Secondo queste argomentazioni, così facendo si negherebbe la parità di genere, cadendo in contraddizione. In realtà, siamo all’annoso problema della parità formale contrapposta alla parità sostanziale: sappiamo che, nonostante la prima sia data per scontata e codificata nel diritto, permangono discriminazioni e bias che fanno sì che le donne si trovino, di fatto, in una condizione di svantaggio, condizione che sul lungo periodo potrebbe essere affrontata eliminando le radici socio-culturali dei bias, ma che sul breve periodo richiede delle azioni affermative, cioè azioni di “discriminazione al contrario” che, modificando l’ambiente, contribuiscono a normalizzare la presenza delle donne e di conseguenza a ridurre il bias stesso, rendendolo inattuale.
Le quote, forzando la scelta nella direzione del genere più svantaggiato in un dato contesto (che è quello femminile per orientamenti culturali), obbligano a considerare le donne. Ma questo non è necessariamente in contrasto con il merito, come spiegava appunto nel 2012 Simona Cuomo, intervistata da Monica Piccini su Elle, nell’ambito dello speciale SorElle d’Italia, che negli anni 2011-2013 ha ospitato una parte corposa del dibattito sulle questioni di genere e sul femminismo. Simona Cuomo, responsabile dell’Osservatorio sul diversity management della Bocconi,  in quell’anno aveva pubblicato con la collega Adele Mapelli un saggio intitolato Un posto in CDA. Costruire valore attraverso la diversità di genere per Egea Editore ed era una delle voci più competenti e autorevoli in questo dibattito. Poiché le argomentazioni sulle “quote rosa” in questi quasi sei anni non sono progredite, questa intervista conserva la stessa attualità di quando uscì. E questo la dice lunga.

L’articolo inizia descrivendo la situazione com’era nel 2012, quando le amministratrici delegate in Italia erano solo 1 ogni 30 amministratori delegati (il che vuol dire il 3,33%). Simona Cuomo, nel 2008, aveva avviato una collaborazione con Monica Pesce, presidentessa dell’associazione PWA Milan, per raccogliere i curriculum di professioniste con i requisiti per accedere ai Consigli d’amministrazione delle aziende quotate in Borsa in un dossier “Ready-for-Board Women”, che è diventato la base di un “progetto di ricerca con cui verificare il livello di competenze, senza esclusione di genere, presente negli attuali CdA delle aziende private per poi confrontarlo con il profilo delle nostre candidate”, come spiega nell’intervista. I risultati sono stati i seguenti: “I profili delle done da noi selezionate erano molto simili per competenze a quelle di un membro medio di CdA, e cioè un uomo, con laurea economica, che ha cambiato due volte città e tre aziende prima di essere nominato in un board, con appartenenza ai network che contano. Quindi il motivo dell’esclusione non poteva essere una questione di carte in regola quanto piuttosto di processi di selezione d’ingresso, con cui al momento si tende ad attrarre ‘cloni’ di quelli che già siedono nelle stanze dei bottoni. In questo modo è facile escludere tutta una serie di professioniste che arrivano da marketing, organizzazione strategica, corporate communication: vale a dire tutte quelle aree di business che le donne presidiano di più”.

Simona Cuomo prosegue: “In termini di merito le donne possono contribuire a portare maggior valore nei sistemi di governance, non in quanto donne ma perché portatrici di competenze specifiche. Detto questo, ancora oggi la cultura organizzativa privilegia valori legati all’efficienza, alla competitività spinta, all’indipendenza e tende a svalutare forme diverse di espressività legate più all’intelligenza emotiva, all’intuizione, alla collaborazione, all’interdipendenza. Le donne in questo possono fare la differenza”. Le differenze che si riscontrano fra uomini e donne sono dovute ai processi di socializzazione, che si fondano sul binarismo di genere e conducono a sviluppare qualità diverse perché diversi sono i sistemi di aspettative legate al genere per maschi e femmine, e alle diverse carriere aziendali, che sono da una parte conseguenze dei percorsi di studio scelti dalle donne, dall’altra delle idee socialmente condivise su quali mansioni e competenze siano “femminili” e quali “maschili”.
Inoltre, continua Cuomo: “Le quote sono importanti perché se metto una donna in un contesto di dieci, dodici consiglieri uomini potrebbe non riuscire a esprimere se stessa in un gruppo così omogeneo. È un problema di maggioranza. […] Una donna che arriva lì pur con tutte le carte in regola potrebbe non farcela a esprimere un punto di vista differente. Per questo i numeri sono importanti. Perché bisogna introdurre un cambiamento che sia realmente efficace”. Infatti, è noto dalla psicologia sociale che una persona tende a conformarsi al parere della maggioranza quando si trova isolata, perché il fatto che tutti pensino concordemente una cosa diversa dalla propria spinge a dubitare di sé e della validità delle proprie idee, mentre invece se c’è anche solo un’altra persona che dissente dalla maggioranza è più facile trovare la forza di spezzare il consenso e articolare la propria opinione.
Nel caso delle donne, i processi di socializzazione che ci spingono ad essere più introspettive e meno assertive rispetto agli uomini, nonché tutte le insicurezze che vengono alimentate dalle aspettative sociali, aggiungono un ulteriore strato di difficoltà.

Nella presentazione del suo corso presso la Bocconi, Leadership al femminile, Simona Cuomo scrive: “La gestione del potere rappresenta per le donne una sfida difficile; in un terreno culturale che si uove secondo regole e valori differenti, le donne fanno fatica e spesso si autoescludono”. Quando l’intervistatrice le chiede come superare questo problema, l’autrice risponde che la prima lezione da imparare è “Stare su di noi e non negli occhi degli altri. Tra le altre cose insegno ad avere consapevolezza del contesto e di quali sono le regole in cui ci si muove. A costruire un percorso professionale rimanendo concentrate su di sé e non scimmiottando altri modelli, a valorizzare il proprio talento e ad accettare la sfida del potere. Siamo state talmente abituate a non esserci e a non partecipare che spesso non ci poniamo neanche l’obiettivo. Soprattutto perché le regole del gioco sono plasmate ancora secondo le esigenze della classe dirigente, prevalentemente maschile. Prendiamo per esempio l’orario di lavoro, quello che impone una dedizione totale e una giornata di 10 ore. Va da sé che la conciliazione del doppio ruolo, madre e lavoratrice, diventa pressoché impossibile. La strada da fare è quella verso una cultura che includa e valorizzi le diversità di cui ciascuna persona, uomo o donna che sia, è portatrice“.

Infine, Simona Cuomo conclude la sua intervista con una serie di consigli pratici e condivisibili: “La cosa più importante è creare sinergia e alleanze con altre donne e lavorare in un’ottica di lavoro di squadra all’interno del contesto in cui siamo. Le donne in questo fanno moltissima fatica. Lo vedo a tutti i livelli: a un certo punto diventa importante solo la propria visibilità. In dieci anni di dibattito sul tema delle quote rosa, per esempio, sono proliferate associazioni e network, quando avrebbe avuto molto più senso costruire dei ponti per essere più incisive. Ci sono decine di liste di candidate consigliere in giro. Ci si poteva mettere in un’ottica di maggiore cooperazione per una causa comune. Penso che questo sia un buon punto d’inizio. È proprio il caso di dirlo: buon lavoro”. Una conclusione incoraggiante, che ci ricorda l’importanza di collegare il livello macro, dato da un contesto legislativo che si è avviato verso la strada delle azioni affermative, con il livello micro, dei rapporti personali.

8 pensieri su ““Quote rosa” e meritocrazia: un’intervista a Simona Cuomo

  1. Io personalmente sono molto favorevole alle quote rose e spero che rimangano in funzione fino a che non abbiano raggiunto lo scopo per cui sono state messe , ovvero arrivare a una presenza femminile nei C.D.A. vicina al 50% ma penso anche che queste quote rose o quote di genere se preferiamo debbano essere estese anche in altre situazioni, per esempio anche in molti concorsi ritengo che ci possa essere questo strumento.Si potrebbe anche dare delle agevolazioni/incentivi alle aziende(private) che hanno una forte presenza femminile nei CDA e in generale in tutta l’azienda.

    • Aggiungo anche che era circolata una petizione su change.org per fornire una corsia preferenziale nelle assunzioni alle sopravvissute alla violenza domestica, per le quali la riqualificazione professionale e l’autonomia finanziaria sono fondamentali per ricostruirsi una vita.

      • Su questo concordo con te ovviamente in una situazione del genere molto critica ci vuole un percorso completo,quindi prima i centri anti-violenza per aiutare immediatamente poi sarei favorevole che lo stato dia un aiuto temporaneo di tipo economico per aiutare queste donne sopratutto per quanto può riguardare un affitto oppure un corso di formazione.

      • Sì, bisogna capire che una donna vittima di violenza non ha magicamente risolto i suoi problemi con l’arresto del perpetratore (se avviene…), ma deve ricominciare da zero la sua vita perché spesso tutto il contesto in cui viveva è tossico per lei. Si aspettano che resti a vivere nella casa del marito violento mentre lui è in carcere, forse?
        Abbiamo visto spesso che i familiari dell’uomo violento lo difendono: ci si aspetta che la vittima resti vicino a loro a farsi rivittimizzare e insultare?
        Spesso una vittima ha bisogno di cambiare almeno quartiere, se non proprio città. E non può vivere in un rifugio per sempre. Lo Stato dovrebbe pensare alla violenza domestica a 360°: non è solo un problema di crimine, ma un problema sociale che richiede politiche sociali specifiche.

  2. Il problema e che lo stato/politica questo non lo riesce a capire , dato che poi un reddito per le donne vittime di violenze è sicuramente sostenibile per lo stato per esempio il reddito d’inclusione fatto dal governo Gentiloni è costato 2 miliardi ed è stato erogato a 900.000 persone (certo parliamo di aiuti economici da 187 fino a 490 in base al reddito e al numero di componenti del nucleo familiare) oltre che a un progetto personalizzato per uscire dalla povertà(o almeno cosi c’è scritto) , penso che se c’è la volontà si possa fare qualcosa in più per le donne vittime di violenze anche se adesso ci sono pure centri anti-violenza che rischiano di chiudere per problemi economici.

    • I centri antiviolenza sono vitali, assolutamente. E bisogna che la politica capisca che richiedono un tipo di competenza ed esperienza che non si può improvvisare, che non basta un posto letto dove le donne possano stare, che non basta una psicologa (per quanto brava) ma occorrono persone che siano esperte di tutti i lati del problema della violenza, che sappiano inquadrarla nella giusta prospettiva teorica. Questo vale per tutti gli operatori che devono lavorare con le vittime di violenza, ovviamente, ma il punto cruciale è che la professionalità non si improvvisa.

      • Questo governo ha detto di voler fare viaggiare le denunce per maltrattamenti più velocemente, ma poi deve capire che queste donne devono andare nei centri anti-violenza e che questi centri devono essere finanziati.
        Molte volte questi centri sono morosi verso i comuni per gli affitti e cose cosi, ma bisogna capire che questi centri svolgono una funzione che dovrebbe fare lo stato e che quindi gli fanno risparmiare tanti soldi quindi loro ripagano cosi i debiti questo si deve considerare.

      • Sono d’accordo. Questi centri non producono utili, perché la loro funzione non può essere a pagamento. Lo Stato deve finanziarli perché è l’unica scelta giusta: appare chiaro che le conoscenze e competenze delle operatrici dei centri antiviolenza sono insostituibili da parte delle istituzioni e necessarie per affrontare correttamente la violenza di genere.
        Ho seguito con attenzione la vicenda della Casa delle Donne di Roma, ad esempio, e la mancanza di lungimiranza della sindaca Raggi mi ferisce e mi deprime.

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