Donne, maternità e lavoro

Ho già pubblicato due post che riprendono il dibattito sulla presenza e la carriera delle donne nel mondo del lavoro italiano avviato dalla rivista Elle, nell’ambito dello speciale SorElle d’Italia nel 2011, nel 2012 e nel 2013, dibattito che ha segnato una ripresa della riflessione femminista nel discorso pubblico, un vero e proprio risveglio culminato nel movimento Se Non Ora Quando?. I due post precedenti contengono interviste a due esperte sul tema delle “quote rosa”, della meritocrazia e delle sfide che le donne devono affrontare per fare carriera, fra i vincoli dell’organizzazione aziendale e le aspettative relative al ‘dover essere’ e al lavoro di cura. Il contributo che qui propongo, tratto da un articolo (da me rielaborato) di Stefania Bonacina uscito sul numero di Elle del febbraio 2011, è precedente rispetto ai due precedenti, ma si inscrive nello stesso discorso e lo sviluppa in direzioni diverse rispetto alle interviste di Simona Cuomo e Maria Cristina Bombelli, più focalizzate su un tema specifico.

Alessandra Perrazzelli, all’epoca nello staff del CEO di Intesa Sanpaolo e responsabile dell’ufficio International Affairs del Gruppo, nonché presidente di Valore D, dichiarava: «Se io, azienda, investo nella formazione e nel percorso di professionalità di una donna, non posso permettermi di perdere il mio investimento. Eppure, a oggi, so che probabilmente nel giro di dieci anni la giovane piena di grinta, prospettive e competenza che ho assunto uscirà dal mio radar e al suo posto mi ritroverà solo la sua ombra. Il problema non è più l’accesso al lavoro o alla carriera. Ormai le donne stracciano i colleghi nell’istruzione e nei colloqui di lavoro. Ma lo scoglio della maternità si trasforma in una montagna e, se arretrano al primo figlio, scompaiono dopo il secondo. Il fenomeno dell’autoesclusione dalla carriera è peggio di un abbandono del posto di lavoro e non si possono incolpare le sole aziende. Il movimento è bilaterale: l’ambiente lavorativo non agevola le madri perché, evidentemente, in quel mondo c’è qualcosa che non funziona per loro. E loro si trasformano in donne sfiduciate e rinunciatarie».
La giornalista Stefania Bonacina commentava queste parole scrivendo: “La mancanza di flessibilità e di un serio sistema di valutazione del merito nel ‘sistema azienda’ penalizza non solo le donne italiane, soprattutto le madri, ma anche i talenti strategici per gareggiare nel nuovo mercato. Monica Pesce [all’epoca senior manager di Valdani-Vicari&Associati e presidente di Professional Women Association Milano, la branca lombarda dell’European Professional Women Network, ndr] spiega che la nostra cultura aziendale non è basata sul merito e sul raggiungimento d’obiettivi come lo è, per esempio, l’università. Nella stragrande maggioranza dei casi vale ancora l’adagio ‘io compro il tuo tempo’: si pone l’accento sui tempi di lavoro piuttosto che sul merito e i risultati. La mancanza di flessibilità che questo sistema genera è fortemente punitiva per le donne, ma non solo. Per come sono strutturate le aziende italiane, soprattutto le piccole e medie imprese, e per la concorrenza e le logiche del mercato globale, o s’impara velocemente a valorizzare e trattenere i talenti o si è destinati a soccombere alle multinazionali, le uniche in grado di offrire quello che i professionisti richiedono ora: un percorso basato sulla meritocrazia, ricco di senso e significato e la possibilità di conciliare vita lavorativa e vita privata. Se non si raggiungono questi obiettivi, il tessuto della piccola e media impresa italiana è destinato a diventare un parcheggio di persone che vogliono solo uno stipendio a fine mese. Il tema della maternità s’intreccia con quello della flessibilità ed è così che si forma per le donne un nodo difficile da sciogliere, se non al costo di un’alta ‘spesa di energie personali’.

Marisa Montegiove (all’epoca vicepresidente di ManagerItalia Milano) aggiungeva questa riflessione: «Non si può negare che ci siano donne con comportamenti poco virtuosi che penalizzano le altri madri (per il pediatra non ci vuole un’intera giornata), ma l’idea che la maternità debba essere vissuta come un problema delle donne e non un bene per la società non mi sembra giusta. Molte aziende sono women friendly solo a parole. In Italia è più facile aggirare le leggi piuttosto che eseguirle e anche a una top manager si può bloccare la carriera. Per questo abbiamo lanciato l’iniziativa ‘Un fiocco in azienda’, per sostenere le manager nella decisione di avere un figlio e durante la maternità. Il fiocco sulla porta dell’azienda è un simbolo della gioia ‘aziendale e pubblica’ per la nuova vita».

Alessandra Perrazzelli proseguiva con un altro commento interessante: «Mi domando: perché le giovani donne dovrebbero voler diventare come noi? C’è un grave problema di role modelling, di leadership femminile. Le donne aspettano sempre un riconoscimento da parte dell’uomo, non chiedono e tanto meno pretendono o negoziano. Se io propongo una nuova mansione a un mio giovane, lui mi parla soavemente di bonus mentre la collega mi ringrazia perché ho creduto in lei. Sono io che le spingo a darsi un valore economico. Abbiamo il dovere di prendere per mano le giovani e portarle oltre il limite che ha frenato noi».

Il discorso delle professioniste è lo stesso che abbiamo cercato di riassumere in questo blog in molte occasioni: la scarsa presenza di donne ai vertici della società – in politica, nelle attività economiche, nel riconoscimento pubblico che si concretizza nell’essere nomi famosi nel proprio campo (una scienziata tanto famosa quanto lo è Stephen Hawking al giorno d’oggi non c’è – e Hawking continuerà ad esserlo, ne sono certa, anche per i prossimi anni, nonostante la sua morte) – è dovuta a un intreccio sistemico fra i modelli di welfare che si basano su e presuppongono una ripartizione asimmetrica del lavoro di cura, le aspettative interiorizzate della società che riflettono e perpetuano questo assetto di welfare postulando che il lavoro della donna sia secondario e complementare rispetto a quello dell’uomo, condizionato comunque dal dovere di cura della donna nei confronti della casa, dei figli, dei genitori anziani non autosufficienti. Le donne non sono immuni dal peso di queste aspettative: sono in molte a ritenere che il loro ruolo sociale e la loro identità sia principalmente quella di madre, a vivere il lavoro come secondario rispetto alla cura dei figli, non sono semplicemente intrappolate fra i vincoli incrociati del contesto organizzativo (orari degli asili e degli uffici pubblici, riunioni organizzate la sera, mancanza di asili nido…) e la cultura aziendale sopra descritta, e con i loro atteggiamenti e le loro scelte contribuiscono a plasmare la cultura aziendale, a confermare i pregiudizi. Ma questo è normale, non è una colpa: se il cambiamento fosse facile da costruire, se non dipendesse dal combinarsi di scelte individuali e vincoli sistemici (azione e struttura sociale, nel linguaggio classico della sociologia), sarebbe già avvenuto.
Anche le “quote rosa” vanno intese come un cuneo che provi a conficcarsi nel sistema qui delineato per cercare di cambiarlo dall’interno, nella speranza che i suoi effetti si espandano come cerchi nell’acqua. Lo stesso effetto dovrebbero avere i congedi di paternità obbligatori: l’obbligatorietà dovrebbe servire a vincere le resistenze degli uomini a prendere il congedo, dovute al pregiudizio secondo cui spetta alle donne stare a casa ad occuparsi dei bambini dopo la nascita, e al contempo a colmare in parte il “vantaggio” che un uomo rappresenta per un’azienda per il fatto che non deve stare a casa in maternità, e che quindi è più produttivo. Qui mi ricollego al discorso di Marisa Montegiove: perché consideriamo la maternità un handicap individuale, invece che un evento dotato di valenza positiva per tutta la società, pur vivendo in una nazione caratterizzata dall’invecchiamento della popolazione e da tassi di natalità fra i più bassi d’Europa? Naturalmente, vale anche il contrario: come ci si può aspettare che i tassi di natalità siano elevati se alla maternità si attribuisce, in termini pratici, tutto il discutibile ruolo di ostacolo, onere individuale, fattore di rischio di licenziamento?

Io auspico e pretendo un discorso pubblico che non si rifiuti di considerare il ruolo delle donne nel perpetuare un sistema che sopravvive per inerzia ma il cui smantellamento porterebbe un grande vantaggio a tutta la società, quello che vede l’uomo nel ruolo del breadwinner principale e la donna nel ruolo della prestatrice di lavoro di cura principale in una famiglia, ma al contempo non attribuisca alle donne come singole persone tutta la responsabilità di cambiarlo, attribuendo tutto il peso alle loro scelte (o alla loro incapacità di compiere le scelte “giuste”). Voglio un discorso che tenga conto della complessità: siamo al lavoro su questi temi da quasi vent’anni e dovrebbe essere chiaro che non c’è un unico, ovvio, bandolo della matassa, districato il quale tutto il problema si può risolvere in una chiara, pulita, progressione lineare.  Raramente i grandi problemi sociali funzionano così.
Come donne abbiamo sicuramente il diritto di esigere una condivisione il più paritaria possibile del lavoro di cura nella sfera domestica, di esigere che i servizi pubblici e la cultura aziendale cambino per riflettere e favorire il nostro rinnovato impegno nel mondo del lavoro e concederci le opportunità che meritiamo, ma al contempo dobbiamo fare attenzione a quello che vogliamo e a fare in modo di avere gli strumenti per perseguire i nostri obiettivi, chiarendo a noi stesse le nostre vere priorità e i nostri veri bisogni al di là delle aspettative altrui. La maternità può benissimo essere la priorità e il senso della vita per una donna, così come può esserlo il lavoro, così come può esserlo voler perseguire entrambi in modo equilibrato senza sacrificare sé stesse. Sicuramente meno pressione sociale non può che aiutarci a trovare la strada giusta per noi.

12 pensieri su “Donne, maternità e lavoro

  1. Intanto complimenti per l’articolo, allora come detto in precedenza ammiro molto la maternità ovvero il generare una vita dentro di se ci sarà un motivo se le prime religioni del umanità si basano su questo(la grande madre ecc……).Il discorso carriera/figli o anche più semplicemente lavoro/figli e un discorso/problema che si trascina da molto tempo io ritengo personalmente che molte delle responsabilità siano a carico delle aziende basti pensare i colloqui in cui le aziende chiedono alle donne se vogliono avere dei figli o per esempio alle dimissioni in bianco, un altra grandissima fetta di responsabilità la do allo stato in particolar modo alla mancanza di welfare cioè li asili nido,per quando riguarda invece il discorso della società che vuole la donna ad accudire i figli ritengo che con le nuove generazioni questa cosa stia diminuendo e un giorno scomparirà (penso e spero) oltretutto è un discorso di necessità che entrambi i partner lavorino dovuto al costo della vita (o sarebbe meglio dire ai bassi salari).Sicuramente gli uomini dovrebbero accettare i congedi parentali e dovrebbero essere più simili a quelli dei paesi del nord europa,poi ci sono magari certe donne che hanno atteggiamenti sbagliati come dici tu o che si lasciano “abbattere” troppo facilmente , mi piace molto anche come finisci l’articolo in quanto talvolta certe femministe confondono la pressione della società nel volere la donna ad accudire i bambini con la volontà di farsi una famiglia cosa che in genere tutte le persone vogliono/fanno che siano uomini o donne.

    • Io non condanno le scelte di vita di nessuna/o, ma vorrei che le donne si rendessero conto che ci sono scelte che, purtroppo, ci mettono in una posizione di svantaggio che può risultare pericolosa. Una di queste è scegliere di fare la casalinga: sacrificare la propria indipendenza economica è rischioso, perché una volta che la relazione/matrimonio finisce non si hanno le risorse economiche da parte che rendono meno difficile ricominciare, e spesso il mondo del lavoro rigetta chi è “fuori” da molti anni e non è quindi professionalmente aggiornato.
      Una donna non dovrebbe mai vedere sé stessa solo come elemento di una famiglia, ma continuare ad avere obiettivi, risorse, progetti personali.

      • Aggiungo che tutti/e dovrebbero capire che la maternità è si una parte della vita ma non vedo perchè una donna dovrebbe cambiare completamente carattere dopo questo cioè, è chiaro che lei (insieme al padre) si deve occupare del figlio/figlia ma questo non significa cambiare da non madre a madre.Per esempio trovo patetico che quando una donna dello spettacolo che posta foto sexy sui social lo fa dopo che diventa madre(quindi li faceva anche prima) si trova commenti del tipo “ma tuo figlio cosa pensi” ecc….. tralasciando che un figlio di pochi mesi/anni di certo pensa ad altro, oppure parlando di lavoro(ma ammetto che è un esempio abbastanza estremo) quello si cui una donna incinta dovrebbe preoccuparsi è la sua salute(questo anche quando non si è incinta) e quella del bambino/a , quindi se una certa attività non mette in pericolo nessuno delle due cose si può fare anche se qualcuno da un punto di vista morale potrebbe avere qualcosa da obbiettare , tipo un attrice a luci rosse che lavora quando è in gravidanza.Finisco dicendo che migliaia di anni di storia del genere umano e la storia di moltissimi civiltà nate e scomparse o mutate avrebbero dovuto insegnare a tutti che non c’è un solo modo di vivere la maternità e che questo cambia da donna e che ogni madre prima di tutto è una donna con la sua mentalità e con la sua storia.

      • Sono d’accordo: l’idea che la maternità trasformi una persona è un’esagerazione assurda. E si ricollega alla questione dell’intreccio fra pregiudizi e mancanza di servizi: se le donne hanno il problema di dover incastrare tutti gli impegni derivanti dal ruolo di madre (pediatra, colloqui con gli insegnanti, accompagnare e riprendere i figli a scuola…) perché gli orari dei servizi non sono strutturati per agevolarle o perché i servizi mancano, ovviamente dovranno chiedere più permessi e saranno più stressate dal dover far coincidere tutti gli impegni. E quindi sembreranno più “distratte” e meno dedite al lavoro, rafforzando il pregiudizio per cui una donna madre è una donna persa. E’ ovvio che è compito delle aziende, e dello Stato sociale, rendere concreto il principio costituzionale della Repubblica fondata sul lavoro creando le condizioni affinché tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici possano lavorare nelle condizioni migliori, ed è quindi anche colpa loro se le donne “si perdono” dopo la maternità. Se ci tenessero veramente, farebbero in modo di non farlo accadere.

  2. In primis dovrebbe essere lo stato/politica a occuparsi di questo , soprattutto poi non deve stupirsi se in Italia si fanno meno figli con record negativi storici e ormai la tendenza negativa c’è da oltre 10 anni. Secondo me su questo si deve puntare un po’ sulla carota e un po’ sul bastone mi spiego meglio ,da una parte si devono punire le aziende che hanno atteggiamenti discriminatori anche duramente (e questa sarebbe il bastone) mentre da un altro punta di vista bisogna agevolare le aziende che assumono donne con figli e/o che si dotano di asili nido aziendali con incentivi e/o defiscalizzazioni.

    • Eh, sì: se sul medio periodo (dieci anni sono un periodo abbastanza breve in demografia) questa può essere un’opportunità, se il trend prosegue con questi numeri (un milione in meno in 10 anni, un altro milione in meno nel decennio successivo e così via) si vede subito il problema.

      • Il nuovo governo ha detto che vuole riempire le culle….se questo è davvero il suo scopo , penso che debba aumentare l’occupazione femminile(e generale),aumentare gli stipendi(e combattere la discriminazione nella retribuzione tra uomini e donne),aumentare il lavoro stabile,più asili nido ecc…..
        Ma se non fa questo allora dubito che cambierà qualcosa, di certo regalando terreni dubito si facciano più figli.

      • Sai che mi sono stufata di dirlo? Non è facendo “stare a casa” le donne dal lavoro che si risolve il problema della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione, ma creando i servizi e il clima culturale che rendano possibile per le donne e per i loro compagni progettare una famiglia in sicurezza. Oltretutto, quante giovani famiglie conosci che possono permettersi di mollare tutta la loro vita, incluso un lavoro magari ancora a tempo determinato, per trasferirsi in una zona agricola della Sardegna o del Molise? Io non lo farei mai un simile salto nel vuoto, e credo che non lo farebbe nessuno che non avesse già in mente di fare l’agricoltore.

  3. Articolo molto interessante e anche la discussione molto fruttuosa. A mio parere è una questione di equilibrio, quando questo equilibrio viene a mancare sorgono i problemi. È vergognoso che ancora si licenzi una lavoratrice la cui unica “colpa” è essere incinta. Siamo veramente alla disumanità, si pensa solo al soldo e non alle persone.

    • Scusa se non ho risposto subito, ma ero via dal computer per le vacanze di Pasqua. Grazie per aver trovato interessante il mio post ^^
      Le dimissioni in bianco sono un fenomeno atroce, così come tutte le forme di discriminazione che appunto ruotano attorno al fatto che la maternità è percepita come un disvalore.
      Abbiamo bisogno di tornare a valorizzare le persone come persone, di dare loro il riconoscimento del pieno valore di un essere umano al di là della sua produttività vera o presunta, di capire che un’azienda ha dei doverti sociali prima di tutto al suo interno, e poi verso la comunità in cui si inserisce.
      Credo che culture aziendali aggressive, riflesso di una mascolinità aggressiva, siano parte del problema più di quanto vogliamo ammettere.

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